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Matteo Renzi nell'aula del Senato
Eppur si muove. Matteo Renzi e Carlo Calenda, dopo la giravolta di quest’ultimo in piena campagna elettorale con tanto di benservito al Pd, avevano promesso che la lista unica per le Politiche si sarebbe subito dopo trasformata in una federazione, e così è stato. Per poi evolvere definitivamente nel partito unico liberal-democratico che il leader di Azione sogna da quando ha deciso di fare politica, e che non dispiace nemmeno all’ex presidente del Consiglio.
Il trai d’union? In primis la giustizia, come non mancano di ricordare a ogni evento pubblico e non sia Renzi che Calenda. Il primo, nella consueta e- news inviata ieri, ha parlato del Qatargate e dei metodi della procura di Bruxelles, spiegando che «è giusto fare i processi e condannare chi ruba quando ci sono le prove, ma proprio perché la giustizia è una cosa seria, l’idea di usare la carcerazione preventiva per estorcere confessioni è uno scandalo assoluto». Che è esattamente la linea che da anni porta avanti Enrico Costa, che prima ha lottato per le istanze garantiste dentro Forza Italia e poi è approdato alla corte di Calenda, fino a diventare vicesegretario e responsabile giustizia del partito. «So che molti di voi non saranno d’accordo ma come sapete sono abituato a dire quello che penso, assumendomi le responsabilità», ha aggiunto Renzi.
L’orizzonte del partito unico è quello delle Europee 2024, quando, secondo Renzi, «il governo andrà in crisi e noi saremo il primo partito». Obiettivo quantomeno ambizioso, visto che a meno di un anno e mezzo da quell’appuntamento Fratelli d’Italia viaggia oltre il 30 per cento di consensi e il partito unico tra Azione e Italia viva è lungi dal divenire realtà.
Ma se fonti renziane danno come «certa» la costituzione di un unico contenitore politico, è sui tempi che ci sono le maggiori perplessità. Perché, continuano le stesse fonti, «non è ancora chiaro se verrà costituto prima o dopo le Europee». Dunque le cose potrebbero andare per le lunghe, prospettiva che di certo non piace a Calenda. «L’Italia ha bisogno di un grande partito fatto da chi pensa che giustizia e libertà si nutrono di cultura e sviluppo, e dunque anche di progresso: questo è quello che faremo», ha detto Calenda nel fine settimana a un’iniziativa dei liberali. Un partito, è la visione del leader di Azione, di «liberali, popolari e riformisti» e che dovrà essere «aperto e contendibile».
Con una road map ben definita, a partire dall’istituzione di un comitato promotore aperto, da fare a marzo, passando per la redazione della carta dei valori e delle regole, ad aprile, da un’assemblea costituente con l’elezione degli organi e la decisione del nome, tra giugno e settembre, fino a un Congresso, dopo le Europee.
O almeno questo è il piano di Calenda, la cui messa in piedi dipenderà anche dalle Regionali del prossimo febbraio. Entrambe e candidature che il terzo polo ha deciso di sostenere, quella di Alessio D’Amato nel Lazio e quella di Letizia Moratti in Lombardia, sono di rilievo, e un buon risultato dei candidati potrebbe dare una spinta decisiva nel percorso. Viceversa, una debâcle in due delle Regioni più importanti del paese potrebbe costituire una frenata non da poco, anche per la scelta delle alleanze.
Nel Lazio infatti il terzo polo corre assieme a Pd e Verdi, e staccato dal Movimento 5 Stelle, cioè in una coalizione simile a quella che Enrico Letta immaginava di mettere in campo alle Politiche e che invece è stata smentita da Calenda. In Lombardia, invece, Letizia Moratti corre in solitudine, mentre Pd e Movimento 5 Stelle sono alleati sotto la candidatura di +6. Con il quale Calenda si becca su twitter un giorno sì e l’altro pure, a testimonianza di un clima da campagna elettorale tutt’altro che cordiale. Ma è da Roma, e soprattutto da Milano, che passa la strada per il futuro dei liberal- democratici in Italia.