Il teatro della politica italiana sembra oggi il reame del "Vorrei ma non posso". Vorrebbe uscire dal governo Giuseppe Conte, che si sta svenando per sostenere e far parte di un governo che detesta e che non gli costa solo credibilità e voti. Per motivi simili, resi però più taglienti dalla durissima competizione con FdI, uscirebbe volentieri sia dal governo che dalla maggioranza Matteo Salvini, le cui azioni già in declino sono precipitate da quando si è arruolato nell'Esercito di salvezza nazionale di Mario Draghi. Elezioni il prima possibile non dispiacerebbero affatto a Enrico Letta, che capitalizzerebbe oggi consensi che potrebbero non esserci più tra quale mese ma soprattutto potrebbe affrontare il voto forte di un'alleanza con i 5S che traballa troppo per reggere sino alla primavera 2023. Piacerebbe il voto subito anche a Silvio Berlusconi, che guarda con un certo timore le peripezie della galassia pulviscolare centrista: se riuscisse a sedimentarsi lo farebbe a sue spese. Chissà, forse lo stesso Draghi inizia a vivere con un crescente fastidio l'esasperante condizione di chi deve governare sostenuto da una maggioranza che non è mai stata davvero tale ma che la marcia delle elezioni in avvicinamento ha reso una crema completamente impazzita. Sono chimere. La situazione oggettiva, il ferrigno dominio della realtà, la quantità impressionante di crisi ed emergenze che si sommano e si accavallano, la giustificata paura che tutto possa andare anche peggio a breve impediscono colpi di testa. La permanenza di Draghi al governo almeno fino all'approvazione della legge di bilancio, ultimo atto della legislatura, è un obbligo, non un'opzione fra tante. È in questa cornice che si svolgerà nei prossimi giorni la resa dei conti tra il premier e il suo predecessore. La forma potrà essere più o meo diplomatica. Il Quirinale insiste con Draghi perché coltivi rapporti pacifici e persino cerimoniosi con il leader dei 5S, ma nella sostanza di confronto frontale si tratterà comunque. Se i 5S voteranno la fiducia al Senato sarà una resa. Conte certo continuerà a strepitare e minacciare ma, dopo i ruggiti seguiti dalla prosternazione sulle armi all'Ucraina e dopo aver montato a vuoto una tensione massima su questo decreto, nessuno lo prenderà più sul serio. L'eventuale colpo di testa in settembre, con la legge di bilancio sul tavolo e la crisi incalzante, servirebbe solo a sancire il suo irreversibile declino. Se invece terrà botta, come chiede di fare la maggioranza dei suoi senatori, Draghi drammatizzerà la situazione al massimo dimettendosi ma il capo dello Stato gli ordinerà di presentarsi invece di fronte alle camere per il chiarimento finale e pubblico, solenne, nella sede istituzionale adeguata. Se Conte fosse quel che non è, cioè un leader determinato e con una linea strategica in mente, coglierebbe l'occasione per spostare in quella sede istituzionale il confronto con Draghi sulle sue richieste e condizionerebbe la sua presenza al governo alla risposta del premier, sapendo che non tutto può essere accettato ma che neppure quasi tutto può essere negato. Una scelta fatta in modo limpido su questa base concreta gli restituirebbe la credibilità che ha perso tra un minuetto e l'altro, nel Movimento e come guida del Movimento. Se poi l'esito del confronto dovesse portare il M5S a ritirare la delegazione al governo starebbe a Draghi e Mattarella assumersi la responsabilità di sciogliere le camere sfidando quelle esigenze imposte dalla realtà di cui sopra, pur godendo il governo di una fortissima maggioranza. La croce che oggi pesa sulle spalle dell' "avvocato del popolo" finirebbe su quella del capo del governo. Anche la destra della maggioranza, in particolare la Lega, sarebbe costretta a uscire dalla sua ambiguità mettendo sul tavolo le proprie condizioni e accattando almeno quelle dell'altra metà della maggioranza anche a costo di prestare il fianco agli attacchi di FdI. Le cose, naturalmente, non andranno così. Draghi proseguirà nel suo comunque accidentato cammino portando a compimento la separazione tra gli universi paralleli del governo da un lato e degli schiamazzi politici e parlamentari dall'altro. Ma le conseguenze dell'avvitamento che, iniziato cinque anni fa nella più pirotecnica legislatura nella storia repubblicana potrebbe arrivare a compimento nell'ultimo scorcio del lustro, si vedranno nella prossima legislatura.