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La premessa ufficiale a cui tutti si attengono è che «la fiducia a Conte non è mai stata messa in discussione». Che poi sarebbe anche la fiducia a un governo fino a prova contraria targato Pd, ribadisce qualcun altro. Ufficiosamente, però, la sensazione è che la fermezza del gruppo parlamentare Pd ha sempre avuto nel difendere Conte «stia un poco venendo meno», per usare l’eufemismo di uno dei senatori presenti all’incontro di due giorni fa a Palazzo Madama. Di fatto, tra i dem serpeggia un «fastidio nuovo» nei confronti del presidente del Consiglio e aria di burrasca tra le nuove geometrie interne.Andando per gradi, sul banco degli imputati della riunione informale che ha scaldato gli umori dei gruppi parlamentari è finito in primis Conte. Le critiche sono sempre le stesse: presenziassimo eccessivo del premier se paragonato alla timidezza nell’assumersi l’onere di decisioni forti e riflesso pavloviano di condiscendenza nei confronti dei 5 Stelle. Anche ora che i grillini sono una «polveriera pronta ad esplodere» e accordarsi alle loro bizze potrebbe significare saltare in aria insieme a loro. I fronti caldi sono la ripartenza, rispetto alla quale si lamenta «un eccesso di indecisione» da parte del governo e lo scarso coinvolgimento del Parlamento, ma soprattutto le scelte di politica europea. A livello strategico, dem lamentano la «troppa mano libera» lasciata al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che si è mosso in autonomia su molti fronti (in particolare su quello cinese). Nel dettaglio, poi, il malcontento riguarda la partita sul Mes, l’ormai famigerato prestito europeo di cui proprio il ministro Pd Roberto Gualtieri ha contrattato la mancanza di condizioni: 36 miliardi che tutto il Pd ripete essere «necessari” per pagare almeno i costi sanitari della crisi. Denaro che Conte prima ha rifiutato dopo il niet dei 5 Stelle, per poi tornare sui suoi passi ma senza mai davvero buttare il cuore oltre l’ostacolo. L’atteggiamento, stigmatizzato duramente da Italia Viva, non è piaciuto nemmeno ai dem che pure hanno scelto una linea comunicativa più soft. Dei malumori, alla fine dell’incontro di Palazzo Madama, si è fatto portavoce il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci che ha parlato per eufemismi ma facendo intuire tutti i non detti: «La fase due sarà particolarmente difficile per tutti, anche per il governo», è la premessa, cui segue l’avvertimento: «L’esecutivo Conte non dovrà sbagliare un colpo nel riaccendere la luce al Paese, gestire la necessaria, fondamentale, ripartenza economica e continuare a tenere sotto controllo l’emergenza sanitaria». Infine, la stoccata: «Dobbiamo muoverci come una grande squadra di calcio che si chiama Italia, ogni giocatore nel suo pezzo di campo, dovrà dimostrare destrezza, abilità e sacrificio. Senza passi falsi o improvvidi colpi d’ala». E tra i possibili improvvidi colpi d’ala c’è proprio la partita del Mes, che verrà discussa in Europa nel vertice di oggi, mentre tra i passi falsi potrebbe venire annoverato il passaggio della questione alle Camere solo attraverso un’informativa di Conte ma senza alcun voto d’Aula. E dentro al dibattito sul Mes si annida l’altro fronte di divisione, tutto interno al Partito Democratico. Questa volta, tuttavia, gli schieramenti sono in parte inediti. A saltare agli occhi, infatti, è una frattura che da quasi invisibile si è sempre più allargata con il decorrere dell’emergenza sanitaria che ha di fatto commissariato anche il Parlamento: da un lato la compagine dei membri del Governo, capitanati dall’ultra-governista Dario Franceschini, fautore della strategia della testuggine attorno al premier; dall’altra i parlamentari e soprattutto i senatori, che fino ad oggi si sono accodati ma che si sentono sempre più tagliati fuori dalla cabina di regia delle scelte e relegati nemmeno più a semplici ratificatori ma addirittura a spettatori delle scelte dell’Esecutivo. Proprio la ripartenza nella fase 2, ancora solo accennata e nemmeno con contorni nitidi da Conte, ne è la prova tangibile. In Parlamento non è ancora arrivato nulla, mentre proliferano task force di esperti e si attendono le ridondanti dirette Facebook del premier. Il messaggio da parte dei senatori dem è chiaro: il tempo dell’accondiscendenza è finita, come è finito anche quello dei dpcm utilizzati per prendere decisioni strategiche. La richiesta all’Esecutivo è che si metta fine alla confusione e che i piani della ripartenza passino per il Parlamento, organo al quale i cittadini chiederanno conto dell’azione di governo. Un “altrimenti” non è ancora stato pronunciato da nessuno, ma la sua portata è tutta racchiusa in quella fiducia in Conte che «stia un poco venendo meno», sussurrata tra i corridoi di Palazzo Madama.