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Lingotto. Da Torino a Torino, storia dei Dem
«No, They Couldn’t». Non potevano, o se potevano non ne sono stati capaci. A quasi dieci anni dal discorso del Lingotto di Walter Veltroni, vero atto di nascita del Pd, e poi dalle primarie dell’ottobre 2007 alle quali parteciparono 3mila persone e che incoronarono il segretario all’americana che si presentava appunto con lo slogan “Yes, We Can”, dell’ambizioso progetto resta ben poco.
Il parto era stato lungo e travagliato: questione di anni non di mesi. L’atto di nascita, quel discorso torinese dell’allora sindaco di Roma, fu prolisso e caramelloso. A rileggerlo oggi bisogna farsi largo in un’alluvione di retorica a prezzi stracciati per scoprire le indicazioni politiche che pure c’erano, pur se ben nascoste nella foresta mielosa di buoni sentimenti e dichiarazioni d’intenti tanto stentoree quanto ovvie. Roba imprevedibile come: lotta al precariato, all’evasione fiscale, alla fiacchezza dell’economia, alla farraginosità delle istituzioni, alle lacerazioni nazionali, al crimine...
Qualcosa di meno ovvio però c’era: «L’Europa è andata a destra perché la sinistra è apparsa imprigionata in schemi che l’hanno fatta apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa. Ad una società in movimento, veloce, portatrice di domande e bisogni del tutto inediti, si è risposto con la logica dei ' blocchi sociali' e della pura tutela di conquiste la cui difesa immobile finiva con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società». Era il congedo dalla paccottiglia sociale con la quale la sinistra si era baloccata per un paio di secoli. Non che ai tempi antichissimi la cosa fosse sbagliata, ma nel mirabolante nuovo secolo delle occasioni, delle borse inebbriate, delle bolle soffiate da Wall Street una via l’altra, la si poteva relegare in solaio e finalmente respirare l’aria fresca della quale Tony Blair era stato il vate. Forse se avesse saputo quale terremoto si stava preparando proprio in quelle stesse ore nell’economia americana e poi mondiale il profeta del “We Can” sarebbe stato più prudente. Ma forse no. Vuoi mettere la miseria dei subprime con la maestosità di un sogno?
Il secondo passaggio chiave era più discreto, molto meno esplicito: «Il Pd deve avere un’ambizione non autosufficiente ma maggioritaria». In questo caso a ricevere il benservito era appena un decennio di alleanze e coalizioni, robetta a confronto dei due secoli rossi licenziati poco prima. Nell’immediato, tuttavia, quel passaggio lampo era anche più significativo.
Il partitone non era ancora nato e già aveva fatto la prima vittima: Roma. La capitale andava alla grande, con un Pil superiore a quasi tutte città italiane e le casse piene. Nei suoi primi quattro anni da primo cittadino Veltroni si era mantenuto nel solco delle amministrazioni Rutelli. Ma con l’obbligo di lanciare il Pd alla grande su scala nazionale toccò dare fondo ai risparmi e darci dentro con i buffi per allestire la vetrina. Roma non si è più ripresa.
In ottobre le primarie segnarono il primo, e anche ultimo, momento di trionfo. Walter s’esalta e s’allarga: «Siamo già maggioranza nel Paese». Prodi tripudia: «Sono contento 3 milioni di volte». Gioia mal riposta: la seconda vittima del Pd sarà proprio lui. Il segretario ormai ex sindaco scalpita, l’idea di fare tappezzeria per tre anni lo sfianca. Si accorda con Bertinotti, che insegue il miraggio di un partitone unico della sinistra e i due in coppia, con Mastella a fare da alibi, schiacciano il governo dell’Unione come una noce.
Alle elezioni il Pd conta su una stampa che al confronto la Pravda era voce critica per inventare un testa a testa inesistente con la destra. Così ramazza ' voti utili' ovunque e schianta la sinistra. In compenso si allea con l’Idv di Di Pietro, per tenere botta sul fronte giustizialista. Tanto l’ex pm non è di sinistra e lo si può frequentare senza macchiare le immacolate vesti del ' partito moderno. Ma il responso delle urne, nell’aprile 2008, è spilorcio. Veltroni canta vittoria lo stesso. Per poco. Le mazzate arrivano infatti una dopo l’altra: provinciali in Sicilia, regionali in Abruzzo e poi in Sardegna. Cambiano le regioni, non i risultati. Una batosta via l’altra e dopo appena 16 mesi dalla nomina, nel febbraio 2009, Veltroni passa la mano e si dimette. In un certo senso è da allora che il Pd, ancora in culla, agonizza.
Il nuovo segretario, con funzioni di reggente, è Dario Franceschini. Ha appena il tempo di guidare il partito nella rotta delle europee 2009, dove l’emorragia raggiunge il 7% in meno rispetto all’anno precedente, prima di vedersi soppiantato da Bersani, che diventa segretario in ottobre. Il futuro smacchiatore di giaguari ha in mente un partito già molto diverso da quello del Lingotto. Un partito social- democratico di quelli che lo sbarazzino Walter aveva liquidato come anticaglie. Rutelli, fondatore del partito, vede in giro troppo rosso e leva le tende, seguito da un manipolo centrista. Però coniugare le fantasie rosée del nuovo segretario con la struttura del partito a vocazione maggioritaria risulta proibitivo. L’opposizione al governo Berlusconi resta flaccida. Le ambizioni sinistrorse vengono stroncate dall’appoggio al governo commissariale di Mario Monti, che il Pd è costretto a sostenere fingendo pure un certo entusiasmo.
Il problema di Bersani ha un nome, un cognome a una dimora sul Colle. Giorgio Napolitano fa il bel tempo e quello cattivo nel Paese ma a maggior ragione nel partito che considera vigna di fa-iziano miglia. Vuole la stabilità, reclama un’opposizione all’acqua di rose, almeno in patria è il principale regista dell’operazione Monti. Bersani gli sa resistere con la stessa forza di un micetto. Il crollo della destra va così a vantaggio solo del nemico esterno, M5S, e di quello interno, l’ambizioso sindaco di Firenze, Renzi Matteo che ha un programma drastico: congedare senza onore tutta la vecchia guardia. Il rottamatore si candida alle primarie di coalizione del 2012 ma viene sconfitto dal vegliardo in campo, Bersani, e da quello dietro le quinte, D’Alema. Solo che un partito che si vuole di sinistra e tuttavia deve obbedire a re Giorgio non ha chances. La coalizione ' Italia bene comune' non vince le elezioni: uno di quei casi in cui non vincere equivale a perdere di brutto. Bersani raddoppia il disastro con la figura tragicomica dell’elezione mancata del nuovo presidente. Spiana la strada a Renzi e al suo triennio che da un alto porta la visione di Veltroni alle estreme conseguenze, dall’altro la torce in senso fortemente personalista e familista. Quel che resta del partito mai decollato, lo vedremo oggi. Al Lingotto.