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Nec sine te nec tecum scriverebbe Ovidio: in questo caso con un ancor più accentuato sardonico sorriso sulle labbra. Già perché qui il paradigma degli Amores non c’entra nulla: piuttosto le reciproche convenienze. O costrizioni. Ciò non toglie che il perimetro in cui si svolge l’azione sia lo stesso di duemila e passa anni fa. E dunque Paolo Gentiloni non può procedere - politicamente parlando - senza il cordone che lo lega di Renzi ma quello stesso cordone è il cappio con il quale l’ex premier vuole soffocare - sempre politicamente parlando - ogni velleità respiratoria dell’attuale che miri a travalicare la primavera prossima. Volendo rimanere nell’ambito dei classici, si può aggiungere che mentre i due dei si sfidano non ( ancora?) virulentemente bensì a colpi di minuetti, giravolte e reciproci riconoscimenti, lassù sull’Olimpo Zeus- Mattarella tira i fili della danza perchè poi sarà lui e solo a lui a decretare la fine dello spettacolo.
Tradotto: Gentiloni resta piantato nella stanza dei bottoni finché il Parlamento non lo sfratta e magari anche fino al 2018, termine naturale della legislatura; Renzi non vede l’ora di andare al voto, preferibilmente all’inizio di giugno perché più passa il tempo più la sua leadership subisce un inesorabile processo di erosione. Alla fine il capo dello Stato comunque scioglierà le Camere: ma il quando è tutt’altro che ininfluente. Anzi, è il nocciolo della scena politica.
Intendiamoci: il derby Gentiloni-Mattarella, di cui il Dubbio ha dato conto subito dopo la scelta del Quirinale, è in atto dal momento del giuramento del nuovo presidente del Consiglio. Un match obbligato in cui la volontà dei giocatori conta quasi nulla. Chi infatti immaginasse sgambetti o reciproche voglia di annichilimento sarebbe del tutto fuori strada: può darsi che nelle quinte del Nazareno ci sia chi fomenta la contrapposizione per scopi personali, ma la realtà è che Paolo e Matteo si stimano e hanno lungamente condiviso idee e percorsi. Il nodo risiede nel fatto che le contingenze politiche hanno assegnato a ciascuno un compito che è il rovescio dell’altro. Con il risultato che premer ed ex premier sono come due convogli che marciano sullo stesso binario: se nessuno si scansa, l’urto è inevitabile. Il paradosso sta nel fatto che se scontrarsi è suicida, scansarsi è impossibile.
Renzi dà la sensazione di comportarsi come se il referendum lo avesse stravinto invece di straperso ( il copyright è suo) e procede come se fosse nelle proprie disponibilità stabilire tempi e modi dello scenario politico. Il fatto che ora usi più il noi dell’io ( ma quando, ma dove, insistono i suoi oppositori) non cambia la sostanza. Se, come pare, la Corte Costituzionale consegnerà alle Camere un modello elettorale di tipo proporzionale vanificherà, affondandola, la terza proposta politica in due mesi dell’ex sindaco di Firenze. Dopo le dimissioni da premier, infatti, Renzi chiese o un governo con tutti dentro oppure le elezioni. Non ha ottenuto nè l’uno né le altre. In Direzione ha rilanciato il bipolarismno imperniato sul Mattarellum e pure stavolta si ritroverebbe con un pugno di mosche in mano. Davvero non un esaltante esercizio di leadership.
Inutile, anzi fuorviante tirare in ballo il cattivo carattere o l’ipertrofia dell’ego. La realtà è che quella del segretario del Pd è una battaglia per la sopravvivenza: se, infatti, centrasse l’obiettivo delle urne subito allontanerebbe il congresso che di fatto ora risulterebbe una sorta di resa dei conti senza rete; continurebbe come monarca assoluto a dare le carte nel partito a partire dalla questione fondamentale delle candidature; sterilizzerebbe ogni possibile discussione su eventuali successioni che, al contrario, più si allungano i tempi, più prende forza.
Solo che le necessità di Renzi sono il contrario dell’itinerario di Gentiloni. L’attuale inquilino di palazzo Chigi ha il compito di affrontare le emergenze e far decantare la situazione in attesa della roulette delle urne. Che può cominciare solo dopo che il Parlamento ha dato il via libera ad una nuova legge elettorale. Deve farlo potendo contare sull’ombrello del Quirinale e rivendicando continuità con l’azione del predecessore proprio mentre quello - stando almeno ai retroscena sega l’albero sul quale il governo si appoggia. Nel mezzo c’è il gioco di specchi della sinistra dem che in contrasto con Renzi vuole dare ossigeno a Gentiloni che tuttavia annuncia di voler proseguire nel solco dell’ex premier, costringendo così bersaniani e co. ad eventualmente assecondare linee d’azione che fino a ieri, Renzi regnante, avevano contrastato. In questo guazzabuglio oggi piomba la sentenza della Consulta sull’Italicum. Secondo affidabili boatos, il verdetto amputerà parti sostanziali della legge ma non sarà tale da portare immediatamente al voto. Per aprire la campagna elettorale servirà la trasformazione della sentenza in una legge dello Stato. Con quale maggioranza? Verosimilmente dovrebbe realizzarsi una convergenza in aula tra Pd e FI, visto che Grillo - e la Lega idem - fa sapere che i Cinquestelle non accettano altro che il voto immediato. Ma i refoli d’intesa di un mini Nazareno trovano, su altri fronti, il semaforo ultra rosso dei renziani. Peccato che se davvero passa il proporzionale proprio quel tipo di accordo minaccia di risultare, una volta chiusi i seggi e numeri permettendo, praticamente obbligato. Minarlo fin da subito è come preparare tante polpette avvelenate. Per poi mangiarle.