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La scissione è una minaccia fondata? Farebbe veramente danni al Pd che esiste? Cioè quello reale rimasto sulla piazza politica dopo il referendum e i processi che ha innescato tra i cittadini e nel popolo della politica?
Massimo D’Alema ha ritirato la minaccia (rubo il termine a Panebianco) di scissione del Pd che nelle settimane scorse aveva ripetutamente teorizzato. In cambio chiede elezioni nel 2018 e un congresso Pd senza fretta (autunno 2017?). La proposta prefigura l’accantonamento non tanto e non solo Renzi quanto dell’ipotesi che Renzi ha (molto contraddittoriamente e senza riuscirci) perseguito: cioè stroncare “l’arte del non governo” (secondo il bel titolo dell’ultimo saggio storico di Piero Craveri) per dar vita a una democrazia che decide e segnare la fine delle eterne trattative che si concludono nel nulla mentre altri poteri scelgono e fanno. Della scissione si parla, e si parlerà, molto sui giornali e tra i dirigenti Pd. Con paura. Ma nessuno, curiosamente, si pone la domanda decisiva: la scissione è una minaccia fondata? Farebbe veramente danni al Pd che esiste? Cioè quello reale rimasto sulla piazza politica dopo il referendum e i processi che ha innescato tra i cittadini e nel popolo della politica?
E’ difficile immaginare che sia veramente così. In Italia, non per colpa degli ultimi tre anni ma a datare da un periodo molto più lungo in cui si sono accumulati responsabilità e guasti profondi, siamo ormai oltre che nella società dei partiti senza popolo anche in una società di leader che, tranne rarissimi casi, sono senza seguito ( al massimo, nostalgie).
Ma ciò che fa della scissione una minaccia- imbroglio (fake) sono gli avvenimenti che si sono intrecciati al referendum a partire dal consumarsi inesorabile di una scissione non dichiarata ma vera e profonda tra i “militanti” del Pd. Le minoranze Dem hanno teorizzato, e il Pd ha accettato con oscure motivazioni e una sostanziale inadeguatezza culturale, un No ufficiale e organizzato diverso dal Si’ deciso dalla maggioranza. Sia chiaro: il libero voto di coscienza nei partiti, anche tra i massimi esponenti, è un istituto assolutamente necessario nelle società complesse in cui viviamo. Molti, a partire da D’Alema, lo hanno teorizzato anche sulla Costituzione mentre Renzi e i suoi nulla hanno obiettato. Ma il popolo ( residuo) del Pd sul punto s’è scisso in modo irreversibile perché ha avvertito che il voto di coscienza è legittimo su questioni che attengono la sfera privata e personale ( religione, sesso, aborto, utilizzo dei propri organi, diritto alla morte, ecc). Il referendum costituzionale, invece, s’è interamente svolto, nessuno ha osato sostenere il contrario, sul tema dell’organizzazione del potere nella società e sul suo esercizio, cioè sul cuore della ragione per cui in un partito o in una comunità politica si sta assieme o ci si lascia e contrappone. Ecco perché è legittima l’ipotesi si sia già consumata una irreversibile, e difficilmente recuperabile, scissione nell’elettorato e nel residuo popolo “militante” del Pd. Non sembri un paradosso: forse a partire dalla parte più organica della “ditta” che non ha mai amato contrapporsi ai vertici del partito. Certo, nessuno può sottovalutare i problemi d’immagine e la ferocia dello scontro mediatico che scatenerebbe un’eventuale scissione. Ma il danno non si trasformerebbe in un vantaggio degli scissionisti che hanno già separato tutto quel che era possibile separare nel Pd.
Un altro punto rafforza l’ipotesi che la minaccia di scissione sia fake o una post- verità (post- truth). Il referendum è stato un avvenimento forte e non debole della vicenda italiana. Il dibattito che pur tra tante complessità e confusioni s’è dipanato ha modificato gli orientamenti degli italiani rimescolando e modificando le vecchie identità e militanze politiche. Una parte consistente del Si’ avrebbe difficoltà, io credo, a riadattarsi agli schemi proporzionali del passato che, tra l’altro, nella situazione attuale, spingono per una coalizione centrodestra- centrosinistra come conseguenza diretta e prevista della vittoria schiacciante del No.
I calcoli sui rapporti di forza nel paese al momento sono imprecisi proprio per il prolungarsi dell’effetto referendum che non pare essersi ancora concluso. Unica certezza: l’Italia è tripolare. Ma in quale rapporto? Per il Si’ ha votato il 41% ( più del 40 previsto da quel che la Consulta ha lasciato in piedi dell’Italicum) malgrado l’opposizione di Bersani, Speranza e D’Alema; dell’insieme di formazioni e gruppi della sinistra radicale, di Cgil e Anpi; di una parte grande del think- tank ( costituzionalisti, sociologi, intellettuali organici delle corporazioni) che ha ruotato storicamente attorno alla sinistra orientandola.
Nessuno in questo momento sa con certezza come si muoverà Renzi alla prossima riunione nazionale del Pd, se chiederà ancora elezioni subito o l’immediato congresso per strappare il voto a settembre. Settembre o febbraio 2018 sono la stessa cosa? Certo che no! Il problema è se si voterà prima o dopo la Finanziaria, perché il suo impatto farà la differenza sul voto. Lo ha capito bene Grillo che di fatto si tiene lontano dal chiedere veramente il voto subito per paura di andare al Governo per fare una Finanziaria.