Nella vicenda del torturatore del carcere libico di Mitiga, Najem Osama Almasri, espulso dall’Italia il 21 gennaio scorso in quanto considerato «soggetto pericoloso», si intrecciano questioni giuridiche, istituzionali, politiche e geopolitiche. A partire dal grumo di interessi reciproci riguardante Italia e Libia che non ha origini recenti. Un quadro frastagliato in cui ogni tassello deve essere ben saldato all’altro per evitare fraintendimenti e confusione. Tutto ciò non sta avvenendo, come evidenzia Fulvio Vassallo Paleologo, giurista, già professore di Diritto d’asilo nell’Università di Palermo.

Negli ultimi quattro anni, soprattutto con l’avvento della Turchia a sostegno del governo di unità nazionale libica di Abdul Hamdi Dbeibah, in Tripolitania, e anche per la concorrenza di altre nazioni interessate all’approvvigionamento di fonti energetiche, Gran Bretagna e Francia in prima fila, l’Italia ha visto ridimensionata l’autorevolezza su cui ha cercato di fare leva negli anni scorsi. «La differenza rispetto al passato - spiega Vassallo Paleologo - consiste nel succedersi degli avvenimenti che hanno segnato la perdurante divisione della Libia, prima e dopo la caduta di Gheddafi. Prodi nel 2007, poi Berlusconi nel 2008, Monti nel 2012, Gentiloni e Minniti nel 2017, Conte, Salvini e Di Maio nel 2018 e nel 2019, e poi persino la ex ministra dell’Interno Lamorgese, almeno fino al 2020, trattavano con i libici da posizioni di forza, che permettevano loro pratiche di mediazione con le tribù e le milizie, al riparo da scandali, che oggi possono deflagrare, come nel caso Almasri.

Adesso, la situazione internazionale ha stravolto gli equilibri politici, militari, e criminali, da sempre interconnessi in Libia, accrescendo i poteri di ricatto delle milizie che supportano gli opposti governi di Dbeibah e di Haftar nei confronti dell’Italia, un Paese che è disposto a pagare anche bande criminali per difendere i propri confini, con la esternalizzazione delle frontiere e il supporto alla sedicente guardia costiera libica. Ma anche per salvaguardare investimenti e rifornimenti energetici nelle diverse regioni in cui la Libia rimane divisa, in una fase in cui la concorrenza degli attori internazionali è sempre più forte».

In questi giorni viene spesso ricordato il controverso Memorandum d’intesa sulla migrazione firmato nel febbraio 2017, accordo instaurato tra il governo italiano e quello libico per tenere fuori dall’Europa migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Il ministro dell’Interno dell’epoca, Marco Minniti, fu un convinto sostenitore dell’accordo. Tra il 2017 e la fine del 2022, quasi 100 mila persone sono state rintracciate nel Mediterraneo dai guardiacoste libici e riportati in un Paese, che, come dimostrano le accuse rivolte ad Almasri, non brilla certo per essere sicuro e attento ai diritti umani. I malcapitati venivano e vengono arrestati, sfruttati, e privati di ogni diritto, rinchiusi in veri e propri lager.

La situazione di continua conflittualità che domina la Libia rende tutto complicato. «È un Paese - dice Fulvio Vassallo Paleologo – con una lunga serie di problemi ancora irrisolti. Prima di tutto, manca un esercito nazionale. Operano, inoltre, le milizie, gruppi militari che controllano il territorio e di fatto si sostituiscono tanto alle autorità giudiziarie quanto all’autorità politica. Non a caso, quindi, hanno potere nel gestire i centri di detenzione per i migranti».

In tale contesto si innesta l’iniziativa della Corte penale internazionale per assicurarsi il generale Almasri, accusato di crimini contro l’umanità, con le conseguenze politico- istituzionali delle ultime ore. «Piuttosto che rilanciare la crociata governativa contro le toghe, utile per spingere sulla riforma della giustizia, con la separazione delle carriere e la riforma del Consiglio superiore della magistratura, quasi un regolamento finale dei conti - commenta Vassallo Paleologo -, sarebbe forse meglio, per favorire la comprensione generale dei fatti, restare sui passaggi critici della vicenda Almasri, che si è conclusa senza che le autorità italiane, nel loro complesso, rispondessero positivamente alla richiesta di arresto pervenuta dalla Corte penale internazionale. Tanto che la Corte dell’Aia ha rivolto una circostanziata richiesta di chiarimenti al governo italiano, che potrebbe preludere ad un deferimento al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per violazione dello Statuto istitutivo della Cpi, siglato a Roma nel 1998. Lo Statuto di Roma, nella sua Parte Nona, dedicata alla cooperazione giudiziaria e all’assistenza giudiziale degli Stati parte alla Corte, all’articolo 86 fissa un “Obbligo generale” per gli Stati parte di cooperare pienamente con la Corte per consentire di investigare e perseguire la commissione dei crimini nel contesto della giurisdizione della Corte. Il paragrafo 7 del successivo articolo 87 prevede, poi, espressamente che, nel caso in cui “uno Stato Parte non aderisca ad una richiesta di cooperazione della Corte, impedendole in tal modo di esercitare le sue funzioni ed i suoi poteri, la Corte può prenderne atto ed investire del caso l’Assemblea degli Stati parti o il Consiglio di Sicurezza se è stata adita da quest’ultimo”».

Se fosse stato scarcerato, Almasri avrebbe conservato in Italia lo status di persona non libera, continuando comunque ad essere considerato un ricercato dalla Corte penale internazionale. Dunque, secondo il professore di Diritto d’asilo dell’Università di Palermo, «non c’erano i presupposti per un’espulsione di Almasri in merito alla sua pericolosità». Infine, altro tema rilevante è quello sollevato dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, martedì sera, nel video diffuso dopo le comunicazioni della Procura di Roma. La premier ha affermato di non essere “ricattabile”. «Certo - conclude il professor Vassallo Paleologo -, Meloni non è ricattabile, però in questa vicenda è l’Italia che ha dimostrato di essere ricattabile non dal governo di Tripoli ma da una delle più forti milizie che lo sostengono».