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Saranno barricate, fuori e dentro al Partito Democratico. Fuori, la matassa è già stata sostanzialmente sbrogliata senza cambiare linea: il segretario reggente Maurizio Martina ha rispedito sdegnosamente al mittente l’invito ad un incontro di Luigi Di Maio. Inaccettabile, per i dem, sentirsi messi sullo stesso piano della Lega. Inaccettabile anche la «logica ambigua dei due forni», dell’uno vale l’altro. Per il vero, però, questa volta il niet è stato pronunciato con una titubanza in più: non immediato, prima è trapelato sulla stampa, poi è arrivato il comunicato ufficiale del segretario. Nessuna differenza sostanziale, certo, ma percettibile per il sensibilissimo sismografo interno al Pd, dove il clima è quello teso di una tregua sul punto di scoppiare.
Fissata la data - il 21 aprile si terrà l’Assemblea che deciderà se dare mandato pieno a un nuovo segretario scelto tra i membri oppure se andare a congresso con primarie già in autunno - è partita la contesa e il primo colpo a viso aperto l’ha sparato l’insospettabile Andrea Orlando. Il leader sempre a metà della variegata minoranza dem, ha suonato la carica: «Renzi si decida: o ritira le sue dimissioni, oppure consente a chi pro tempore ha avuto l’incarico di poterlo esercitare». Lo schema non cambia e l’un contro l’altra armate sono le due consuete fazioni: da una parte il Giglio magico renziano, in as- semblea paracarbonara in via Veneto poche ore dopo le consultazioni; dall’altra il tridente Orlando- Cuperlo- Franceschini, tre posizioni diverse ma un unico comune denominatore nel voler certificare una volta per tutte il fallimento del renzismo. E poi c’è il segretario pro tempore difeso da Orlando, ma formalmente appoggiato da Renzi e per ora unico candidato ufficiale alla sedia meno invidiata del Paese: quella del Nazareno. Un po’ renziano nel tenere la barra dritta sulla scelta dell’opposizione e un po’ concertatore nel cercare la sponda delle minoranze, Maurizio Martina è il casus belli che ha fatto deflargrare lo scontro interno.
La riunione di via Veneto, organizzata nel lussuoso palazzo della famiglia Marcucci ( Andrea è il capogruppo del Pd al Senato) con i renziani di stretta osservanza Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Matteo Orfini, Ettore Rosato, Francesco Bonifazi, Graziano Delrio e Lorenzo Gueserata rini avrebbe sancito lo stop alla reggenza di Martina ( unico non invitato della delegazione salita al Quirinale), percepito come troppo poco carismatico per lanciare la riscossa del Pd, che sulla via dell’opposizione dovrebbe ricostruire il suo appeal elettorale. La notizia dell’incontro ha immediatamente acceso il Nazareno e incendiato i social degli orlandiani: preoccupazione, sdegno e rabbia nei confronti dell’ex segretario, ma anche consapevolezza che è arrivato il segnale che in molti temevano, la dimostrazione che Matteo Renzi non ha alcuna intenzione di passare la mano e che intende esercitare la sua golden share sia sui gruppi parlamentari che in Assemblea. «Renzi si riunisca con chi vuole, ma sarebbe opportuno non desse l’impressione di fare una segreteria- ombra» commenta caustico Cesare Damiano, poi la reazione stizzita di Orlando, che non ha trattenuto il fastidio quando è stato bloccato dai giornalisti all’uscita del Consiglio dei Ministri, è stata seguita dal ragionamento di Gianni Cuperlo: «Non sono stupito, ma preoccupato. Alla luce della riunione che si è svolta due giorni fa, e lo dico con profondo rispetto nei confronti dell’ex segretario del mio partito, se Renzi ha cambiato idea e pensa di dover svolgere e assolvere un ruolo e una funzione politica di direzione in questa comunità anche dopo il 4 marzo, ha una via primaria: ritirare le dimissioni, presentarsi all’assemblea del 21 aprile e chiedere a quell’assemblea che si rinnovi la fiducia nella sua persona e nella sua leadership».
Fedele alla sua linea, almeno formalmente, rimane invece Matteo Renzi: nessuna dichiarazione, nessun Tweet, nessuna newsletter. Anzi, l’ex segretario sembra il più prudente sull’idea di archiviare la parentesi Martina, di cui ha apprezzato la capacità di non cedere alle cariche e alle lusinghe 5 Stelle, ma sarebbero invece i suoi a chiederlo con forza. Delrio vuole un congresso «in cui ascoltare la nostra gente», eppure l’incognita rimane quella del nome. Se le minoranze ha riconosciuto a Martina capacità gestionale e si sta compattando intorno a lui anche se è in programma una riunione pre- assembleare per fare il punto, i renziani si ingarbugliano in una serie di nomi: escono quello della governatrice uscente del Friuli Debora Serracchiani, che però è data in allontanamento dal gruppo ristretto del Giglio magico; Matteo Richetti, anche lui recentemente collocatosi su vie più defilate; infine l’onnipresente Ettore Rosato. Proprio la “carta Rosato” è quella più accreditata, da giocare in extremis in Assemblea se si decidesse di non andare a congresso. Col rischio di una conta interna che lascerebbe sul campo più morti che feriti.