PHOTO
Tutti gli imputati hanno diritto a non vedere calpestata dignità. Tutti. Anche gli autori dei reati più odiosi. Anche chi è potenzialmente esposto al rischio di una condanna all’ergastolo. E per nessuno di loro, nessuno escluso, può essere impedito o limitato l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Sono i principi in virtù dei quali mercoledì prossimo la Corte costituzionale sarà a chiamata a decidere se travolgere una legge recente cara alla Lega, la 33 del 2019, vale a dire la riforma con cui a inizio è stato escluso il rito abbreviato per i reati da ergastolo. Modifica fortemente voluta dal partito di Matteo Salvini per negare alle persone accusate, tra l’altro, di omicidio il “beneficio” previsto dal rito speciale: sconto di un terzo della pena, o conversione del carcere a vita in condanna a 30 anni.
La riforma era stata messa a punto in particolare al Senato, dalla commissione Giustizia presieduta da una primissima linea del Carroccio in materia di diritto e processi, Andrea Ostellari. Adesso quella riforma vacilla. Alla Consulta infatti, sono pervenute negli ultimi mesi ben tre ordinanze di remissione da altrettanti tribunali: da un giudice dell’udienza preliminare di La Spezia, da un gup di Piacenza e dalla Corte d’assise di Napoli. In tutti gli atti con cui viene sottoposta al giudice delle leggi la legittimità della riforma, si fa riferimento al contrasto coi principi di ragionevolezza e uguaglianza, ma anche al tradimento del giusto processo, cioè dell’articolo 111 della Carta, in particolare quanto alla ragionevole durata del giudizio, che il rito abbreviato favorisce. La Corte d’assise di Napoli si spinge anche oltre, fino a segnalare la possibile lesione del diritto di difesa inteso appunto come «diritto di accesso ai riti alternativi» : i giudici del tribunale campano denunciano infatti la violazione dell’articolo 24 della Costituzione in relazione all’articolo 3 in cui, con l’uguaglianza dinanzi alla legge, è sancita anche la pari dignità. Se si preclude all’imputato il rito abbreviato, si legge nell’ordinanza, lo si priva della «possibilità di accedere a un rito camerale», e lo si costringe, quindi, necessariamente «ad affrontare il dibattimento in pubblica udienza, con lesione del diritto alla riservatezza e al rispetto della dignità». Nodo che si pone in particolare per i collaboratori di giustizia ai quali, nei processi con più imputati, l’abbreviato evita anche di trovarsi nello stesso dibattimento con i correi che hanno denunciato alla Procura. Sono osservazioni che arrivano al cuore del principio del giusto processo. E che esaltano il diritto di difesa. Si tratta, già a guardare le ordinanze con cui la Consulta il 18 ottobre sarà chiamata al vaglio della legge, di un chiaro riferimento al valore dei riti alternativi. Non solo dell’abbreviato, colpito dalla legge del 2019, ma in generale di tutti gli istituti, incluso il patteggiamento, che consentono una deflazione del carico processuale a fronte di sconti di pena.
La decisione in arrivo la settimana prossima incrocia insomma la stessa politica giudiziaria del governo. A cominciare dalla riforma penale all’esame dell’altra commissione Giustizia, quella di Montecitorio. Nel testo del ddl presentato dal guardasigilli Alfonso Bonafede, infatti, il rafforzamento dei riti alternativi è assai meno deciso di quanto avevano chiesto, ormai due anni fa, avvocatura e magistratura. Rendere più accessibile l’abbreviato, e più appetibile il patteggiamento, era stata la priorità condivisa con l’Anm da Cnf, Ocf e Ucpi. Nel testo di riforma ora alla Camera sono state previste preclusioni così selettive per il patteggiamento da rendere inutile l’innalzamento del limite di pena per accedervi. Così come permangono i limiti posti, nell’abbreviato condizionato, alla difesa, ostacolata nell’individuare le prove necessarie alla decisione del gup.
L’udienza pubblica della Consulta è fissata per le 9.30 di mercoledì prossimo. Giudice relatore, nel collegio presieduto da Mario Morelli, è Francesco Viganò. A essere messo in discussione sarà lo snodo essenziale della legge 33 del 2019, il neointrodotto comma 1- bis dell’articolo 438 del codice di rito, in base al quale «non è ammesso il giudizio abbreviato peri delitti puniti con la pena dell'ergastolo» . La legge è tutta lì. «È una disciplina paradossale», nota la consigliera del Cnf Giovanna Ollà, che nell’istituzione forense coordina la commissione su Diritto e procedura penale. «Quella modifica contrasta con gli intenti proclamati di continuo dal governo: la stessa riforma del processo voluta dal ministro Bonafede è tutta rivolta, nelle intenzioni, a ridurre i tempi dei giudizi e decongestionare il carico dei Tribunali. Ci rendiamo conto di cosa avviene con l’esclusione dall’abbreviato per chi è accusato di reati da ergastolo? Di fatto si rischia di scaricare sulle Corti d’assise il 60- 70 per cento dei procedimenti relativi a quei reati. I due togati che ne devono far parte sono praticamente sequestrati da quel processo per un tempo notevolissimo. Un fascicolo che il gup avrebbe definito in 5 mesi può richiedere, una volta mandato a dibattimento, anche un paio d’anni», fa notare la consigliera Cnf. Naturalmente i Tribunali che hanno chiamato in causa la Consulta hanno potuto far riferimento solo in via generale al principio della ragionevole durata. Ma così come all’istituzione dell’avvocatura, anche ai magistrati, a cominciare dal Csm, è chiaro il danno di sistema prodotto dalla legge. Non basta a fare pronostici, ma almeno a legittimare qualche auspicio.