PHOTO
Davigo non si candiderà. No. Lo si capisce forse una volta per tutte, proprio grazie ai cinquestelle, il partito che lo vorrebbe a Palazzo Chigi. L’ex presidente Anm ripete il suo cortese rifiuto al convegno organizzato dal Movimento nella sala dei Gruppi parlamentari della Camera. Un super dibattito tra figure di primo piano della giustizia, con rappresentanti di tutte le magistrature. Dice no, dunque, l’ex pm del Pool, alle insistite sollecitazioni dell’intervistatrice Liana Milella. Ma forse è addirittura meglio così per Grillo e peggio per gli avversari. La travolgente oratoria esibita da Davigo di fronte ai suoi fedelissimi, ieri mattina, spiega molte cose. Una su tutte: lui sarà un Savonarola della prossima stagione politica, un castigamatti ancora più onnipresente di quanto lo sia stato da leader del sindacato dei giudici. E nel mirino, più che il solito centrodestra, avrà il nemico numero uno, suo e dei pentastellati: Matteo Renzi.
La battuta chiave della mattinata arriva dopo il primo quarto d’ora di requisitoria. Davigo è partito dalla differenza tra le statistiche sulla corruzione, basse, e gli indici di Transparency, che danno l’Italia per corruttissima Repubblica. «Ed è così», premette, «perché la corruzione si regge sul patto di reciproca convenienza. Corrotto e corruttore non hanno interesse a farlo emergere e gli strumenti di legge a disposizione delle indagini non sono sufficienti». Manca, per dire, «l’agente sotto copertura».
E fin qui sono teorie note, esposte certo con rinnovata energia. È la conclusione ad essere rivelatrice: «Possiamo dire con la relativa sicurezza tipica delle scienze sociali che l’Italia è un Paese gravemente corrotto, in cui pressoché mai i corrotti vengono scoperti e perciò quasi mai condannati: perciò, evidentemente, spesso si dice ‘ aspettiamo le sentenze’». Boato. Che è uno sberleffo a Renzi. Perché a ripetere spesso «vogliamo le sentenze, non il gossip sui giornali» è il segretario pd. Ha osato farlo di recente su Consip. Davigo il censore lo tiene puntato.
Non è un dettaglio. Alle urne si misureranno probabilmente due opposizioni, grande coalizione e populismo antisistema. In termini di leadership, se si esclude per ora la variabile Berlusconi, la partita sembra destinata a giocarsi tra Renzi e Grillo. Comunque finisca, il Movimento ha scelto il suo nemico, il segretario Pd appunto. E ha dalla sua, almeno in termini ideologici, un formidabile procacciatore di argomenti distruttivi. Davigo è impietoso, con il centrodestra e il centrosinistra. Poterlo schierare come ieri mattina senza neppure fargli fare il ministro della Giustizia ( «non conta niente e comunque non lo farò mai», liquida lui) sarà formidabile. Avere Piercamillo in Parlamento o al governo non avrebbe lo stesso effetto. Diventerebbe un polemista fra tanti. Così sarà la bomba ad alto potenziale da sganciare quando serve. Come ieri mattina.
«Prima c’era da una parte Forza Italia e le leggi ad personam, dall’altra il Pd che la contrastava. Ma adesso la distinzione sembra non essere chiara». La premessa è di Liana Milella. Che si dichiara «di parte». È qui che Davigo non solo conferma che non c’è un centrosinistra di cui fidarsi, ma anzi «di non essersi mai fatto illusioni». E sfodera la lama più affilata: «Forse tra centrodestra e centrosinistra c’è una differenza di stile. Entrambi si sono dati da fare per contrastare non la corruzione ma i processi di corruzione. I primi le hanno fatte così grosse che non sempre hanno fatto del male a noi magistrati. Il centrosinistra invece ha assunto iniziative mirate che ci hanno messi in ginocchio».
In particolare, ricorda Davigo, «con una legge sottovalutata che approvarono nel 2000 sull’annotazione di fatture per operazioni inesistenti: innalzarono il massimo di pena a 6 anni ma resero la fattispecie applicabile solo quando l’illecito riverberava su dichiarazioni dei redditi oltre una certa soglia». Chiosa: «Hanno introdotto la modica quantità per uso personale... vogliono toglierla per la droga e la mettono per i delitti contabili!...». Applausi anche qui. Seguono invettive contro il centrosinistra attuale: «Non so se mi preoccupa più Renzi o il ministro della Giustizia», che viste le premesse non pare un grosso complimento per Andrea Orlando. Rimprovera a quest’ultimo di aver ritirato le modifiche sulle pensioni dei giudici «perché, si giustificò il guardasigilli, ‘ è cambiato il governo’» .
Contesta più agli avvocati che all’esecutivo i passaggi sgraditi nel ddl penale: «Inutile spostare un po’ più in là il problema, i comportamenti dilatori dei difensori fanno in modo che il reato si estingua comunque». Sempre la classe forense «ha fatto introdurre ordini dissennato che rischia di aggiungersi ai tanti di questi anni, la norma sull’avocazione obbligatoria: quelli della maggioranza ne parlarono con gli avvocati, e quelli dissero che bisognava porre un limite altrimenti le indagini duravano in eterno». C’è n’è anche per Gratteri e la teoria del procuratore di Catanzaro sulle fughe di notizie quasi sempre addebitabili alle Procure: «Se fosse qui gli chiederei: quante indagini hai aperto per violazione del segreto? Se non ne hai fatte le tue sono solo congetture».
All’inizio della trionfale orazione sembra che abbia in mente persino questo giornale quando parla, senza citarne il nome, di «una testata secondo cui la corruzione in Italia è bassa perché gli indici di Transparency, che la ingigantiscono, sono basate sul sentito dire dei sondaggi, mentre le statistiche processuali dicono che i casi sono pochi». Molto, nel discorso dell’ex presidente Anm, ritrae l’Italia come un Paese intrinsecamente voltato al male e al malaffare, cita «le multe sotto il Palazzo di Vetro dell’Onu: venivano annullate in base a un accordo con il Comune di New York, ma quando si misero a contarle si scoprì che i finlandesi non ne prendevano neppure una, che il Kuwait era sempre in divieto e che l’Italia era nella stessa posizione delle classifiche internazionali sulla corruzione». Da lì il discorso sulle riforme davvero necessarie e «gli ufficiali sotto copertura».
E ancora, il caso americano degli agenti provocatori, «che ovviamente sono cosa diversa ma funzionano eccome: dopo le elezioni, negli Usa si presentano finti corruttori da ciascun parlamentare e offrono tangenti, chi ci casca viene arrestato e così fanno pulizia periodica». Aggiunge un’altra frase magica: «Poiché tutto viene registrato, le prove sono schiaccianti e nessuno può dire ‘ è un complotto contro di me, è la giustizia a orologeria’ e tutte le stupidaggini che si dicono in questi casi». L’uditorio, soprattutto quadri ed eletti grillini, scatta in piedi per una lunga standing ovation. La giornalista al suo fianco vi si associa «idealmente». E gli chiede: «Ma non potresti essere tu uno di quelli che fanno le leggi?». Quelli in sala esplodono in un corale «magari!». Lui pronuncia l’ennesimo no. E scandisce: «Non mi occupo di politica ma di politici quando rubano». Cioè quasi sempre, dal suo punto di vista. Il che fa di Piercamillo Davigo un futuro pervasivo protagonista della scena politica, con o senza candidatura con i cinquestelle.