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Nel "Paese normale" favoleggiato un tempo da Massimo D'Alema, oggi, invece di impegnarsi nella solita gara a chi tira prima e più forte il colpo basso, ci si interrogherebbe con la dovuta serietà sul corto circuito tra politica e giustizia che ha mietuto, con l'ex sindaco di Roma Ignazio Marino, la sua vittima forse più eccellente. Minimizzare sarebbe fuori luogo: le dimissioni imposte a Marino dall'allora segretario del Pd Renzi e dal commissario del partito per Roma Orfini non hanno solo mutato radicalmente la traiettoria dell'amministrazione della Capitale ma hanno inciso sulla vicenda politica del Paese intero. Il risultato delle elezioni politiche del 2018 è stato preparato, anticipato e annunciato dalle elezioni amministrative del 2016. Senza l'esito di quelle elezioni molto sarebbe stato diverso e senza la trionfale vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma, conseguenza diretta delle dimissioni di Marino e dello scandalo che aveva dato al primo cittadino il colpo di grazia, quell'esito sarebbe stato complessivamente assai meno deflagrante.
Il colpo durissimo all'amministrazione di Marino, vincitore delle elezioni 2013 con poco meno del 64% al ballottaggio contro il sindaco uscente Gianni Alemanno, era arrivato nel dicembre 2014, con gli arresti della maxi- inchiesta Mafia Capitale. Il sindaco non era coinvolto e anzi nelle intercettazioni tra i due principali imputati, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, Buzzi risulta palesemente ansioso di liberarsene in quanto ' incontrollabile'. La mazzata era comunque pesante perché a uscire demolito e profondamente delegittimato dall'inchiesta era, se non il sindaco, certo il partito da cui proveniva, il Pd. Marino poteva resistere sia perché non coinvolto nella torbida storiaccia, sia perché si presentava come outsider, non omologabile al partito di cui aveva la tessera in tasca. Si trattava però di una resistenza fragile, esposta all'assedio del M5S, che puntava soprattutto sullo scandalismo, indebolita dalla tendenza dello stesso medico- sindaco a inanellare una gaffe dietro l'altra.
Gli scandali del 2014- 2015 fiaccarono definitivamente Marino e offrirono a un segretario del Pd che non lo sopportava l'occasione per metterlo alla porta con procedura inaudita: i consiglieri comunali del Pd a cui era stato ordinato di sfiduciarlo furono portati dal notaio per assicurarsi che non facessero scherzi al momento del voto. Cominciò con il ' Pandagate'. Il sindaco, peraltro abituato a girare in bicicletta, parcheggiava la sua Panda vicino al Senato, violava le zone a traffico limitato, non pagava le multe. Marino, che aveva peraltro rinunciato all'auto blu, aveva avuto il permesso di parcheggiare vicino al Senato dopo che la sua auto era stata danneggiata e come sindaco aveva diritto a circolare nelle Ztl. La stampa ci andò a nozze lo stesso. Neppure la scoperta di violazione del sistema informatico del Comune ai danni del sindaco attenuò la tempesta. Finì tuttavia in archiviazione.
Nel frattempo però era esploso lo scandalo scontrini, denunciato dall'M5S. Marino fu messo in croce prima per la presunta irregolarità di alcuni pagamenti alla sua Onlus Imagine, poi per aver usato la carta di credito del Comune pagando alcune cene che, secondo numerosi testimoni, erano invece private. Giusto come condimento, capitombolò sul sindaco martellato anche una denuncia per diffamazione da parte dell'M5S.
Marino, dopo aver restituito al Comune 20mila euro pur proclamandosi innocente, fu giudicato con rito abbreviato sia per la Onlus che per ' gli scontrini'. Fu assolto per entrambe le imputazioni, ma l'appello, un anno e mezzo più tardi, confermò solo l'assoluzione Onlus condannandolo invece a due anni per gli scontrini. Condanna annullata ora, senza rinvio, dalla Cassazione. A prescindere della fondatezza, anzi in questo caso dall'infondatezza, delle accuse colpiva la sproporzione tra i presunti scandali in cui era coinvolto Marino e la situazione devastante in cui si trovava Roma, in materia di corruzione, quando il sindaco ' ridicolo', come all'epoca lo consideravano davvero tutti, s'insediò. Un minestrone in cui un sistema articolato di tangenti, gli intrecci inconfessabili tra politica e palazzinari e una Panda in sosta vietata figuravano sullo stesso piano in nome della ' legalità'.
Proprio perché macroscopico, il caso Marino imporrebbe di ripensare alla possibilità di mettere sempre sotto scacco, ancor più che i politici nazionali, gli amministratori locali dispensando accuse e rinvii a giudizio. Ma il caso pone anche una domanda ancora inevasa e più specifica: il vertice del Pd di allora era consapevole che, cacciando Marino, si sarebbe avviato a perdere le elezioni consegnando la capitale all'M5S? Renzi scelse di sacrificare Roma e ieri Orfini e Giachetti, due tra i principali artefici della cacciata di Marino, hanno assicurato che non fu per gli scandali di cui sopra. Ma perché decisero di consegnare Roma o alla destra o molto più probabilmente ai 5S non lo spiegano.