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Paolo Gentiloni ci ha messo più di 24 ore ma alla fine la solidarietà per Maria Elena Boschi è arrivata. Non poteva andare diversamente: di ora in ora il silenzio del premier su una vicenda che riguarda non una ex ministra ma una sottosegretaria in carica alla sua presidenza del consiglio, diventava più pesante. Quasi un’ammissione di colpa. Ma anche così l’inquilino di palazzo Chigi non largheggiato: «Penso che abbia chiarito» e morta lì.
Prudenza, discrezione, understament sono le armi che Paolo Gentiloni si appresta a giocare quando inizierà la partita vera che stavolta, a differenza del solito, sarà dopo e non prima le elezioni. Se non ci sarà maggioranza possibile, come è assolutamente prevedibile e soprattutto previsto, sarà lui il puntello della stabilità del sistema. L’ultima ridotta. La linea del Piave. Per questo il presidente della Repubblica ha imposto di soprassedere sullo Ius Soli, senza peraltro incontrare resistenze di sorta al Nazareno. Il rischio di dover ricorrere al voto di fiducia era forte, quello di ritrovarsi con un governo sfiduciato in extremis quasi altrettanto reale. Sul momento non sarebbe stato un problema. Con la legislatura a un millimetro dallo scioglimento la sfiducia avrebbe avuto un valore appena simbolico. Ma lasciare in carica “per il disbrigo degli affari correnti” un governo sfiduciato sarebbe stato impossibile e comunque si sarebbe trattato di un governo ridotto all’impotenza totale. Ecco perché il Colle ha fatto sapere per tempo, e tassativamente, di volere un finale di legislatura senza traumi. Per lo Ius Soli è stato il de profundis.
Con la mente appuntata sullo stesso ipotetico ma certo non impossibile scenario, Berlusconi ha deciso di muovere un passo, qualche giorno fa, presentando il libro dell’amico Vespa. In apparenza ha enunciato l’ovvio: «Se non ci sarà maggioranza resterà Gentiloni e si dovrebbe rivotare non subito ma entro tre mesi». Più che un desiderio di Arcore, messa così, si tratta di dettato costituzionale. E allora perché il leghista più governativo sulla piazza dopo Bobo Maroni, Giancarlo Giorgetti, proprio lui che non sdegnerebbe affatto una grande coalizione Pd-Fi- Lega, ha sentito il bisogno di alzare subito una barricata inviolabile?
Il fatto è che in politica le parole vanno sempre decodificate e pesate. Chi dice “mai Gentiloni” sa perfettamente che, senza una maggioranza, la permanenza del Conte a palazzo Chigi per un po’ sarà inevitabile. Ma chi nomina apertamente quella eventualità è inevitabilmente sospetto di meditare su un passo ulteriore: magari non proprio un governo di legislatura ma almeno un annetto, quello sì. Solo che un governo senza fiducia e “per gli affari correnti” non può in alcun caso avere tanto respiro. Occorre un voto di fiducia, serve una maggioranza, sia pure emergenziale, a tempo determinato, con programma limitato, ecc.
Quella strada, che oggi nessuno oserebbe nominare, se le urne non decreteranno vincitori e non permetteranno neppure l’accordo già pronto Pd- Fi verrà indicata in massa. Le argomentazioni non mancheranno. Per il Pd un secondo turno a breve potrebbe essere fatale. Si imporrebbe infatti, probabilmente, una sfida bipolarista tra M5S e centrodestra. In ogni caso la minaccia di un ennesimo turno a vuoto, in un quadro sostanzialmente identico a quello di marzo, sarebbe incombente e si sa che nulla permette di proseguire una legislatura navigando a vista quanto l’esigenza di modificare la legge elettorale. Ma a quel punto proseguire per un paio d’anni e comunque fino a che, scaduto il mandato europeo, Mario Draghi sia pronto a salvare per l’ennesima volta la patria sarebbe quasi una passeggiata.
Proprio grazie al suo stile, esattamente opposto a quello di Renzi, Gentiloni è una figura perfetta per un gioco di questo tipo: gradito all’Europa, non sgradito ai rivali politici in patria e soprattutto capace, come ha dimostrato ancora ieri con la calibrata dichiarazione di sostegno alla Boschi, di non apparire mai minaccioso per Renzi. Salvo il particolare che l’apparenza spesso inganna.