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Enrico Letta, segretario uscente del Partito democratico
Sperando che il congresso che s’avvia non si trasformi in un semplice concorso per la leadership, occorre tributare l’onore delle armi al Pd di Enrico Letta. Anzitutto per la qualità del suo ultimo discorso, nel quale tracciando il bilancio della sua segreteria ha richiamato ognuno al valore dell’autenticità come fondamento di ogni buona azione politica: nella Repubblica della politica politicante adusa al doppio linguaggio, decisamente non è poco. Ma soprattutto perché dal suo arrivo alla guida del Nazareno il 14 marzo del 2021 dopo la detronizzazione di Nicola Zingaretti, fatto che ha consentito sia la nascita che l’ancoraggio del governo di Mario Draghi, il Pd ha assunto una collocazione internazionale europeista e soprattutto atlantista, nitida, senza più alcun ombra. Un profilo ideale di riformismo di sinistra. E poi Letta ha vinto la partita del Quirinale, con la riconferma di Sergio Mattarella (la cui prima elezione è ciò che invece costò a Matteo Renzi la rottura dell’asse con Berlusconi e il conseguente progressivo suo indebolimento fino all’uscita di scena). Ha vinto le elezioni amministrative, a cominciare dal Campidoglio, e non era cosa scontata. In campagna elettorale ha avuto l’acume politico di individuare subito nitidamente il vero avversario politico in Giorgia Meloni.
Se poi molti italiani - non la maggioranza: essa è il portato della legge elettorale attuale - hanno scelto la coalizione avversaria, non si può addossargliene la colpa, e tantomeno invocando il pallido argomento della “campagna elettorale sbagliata”, come se l’elettore fosse solo in caccia di pifferai magici: si son letti autorevolissimi politologi convinti che Barack Obama abbia vinto la Casa Bianca solo grazie a un uso smart dei social. Come se per fare un campione sportivo bastasse dopare il primo passante.
E va onore al merito anche l’essersi assunto pienamente la responsabilità di quella sconfitta. Che sconfitta poi non era, anche se i capicorrente l’hanno impugnata intravedendo la possibilità di nuove sorti magnifiche e progressive per se stessi o per altri: dati alla mano, alle ultime elezioni il Pd non ha perso percentuali. Il punto è che non ha recuperato quell’ 1,5 milioni di elettori che, stanchi di un partito che con Renzi aveva cambiato pelle, nel 2018 passarono armi e bagagli ai 5 Stelle. Ma avendo subìto, nel frattempo, ben due scissioni. E pagando un prezzo alto dall’essere stato a lungo, da Monti in avanti, in governi di coalizione che erano in realtà mésalliance, in nome del superiore interesse del Paese.
Resta poi anche il fatto che il Pd, il partito più svillaneggiato e quasi caricaturizzato sulla scena del dibattito pubblico, è in realtà l’unica forza politica al cui interno esita quell’esercizio di democrazia nei partiti indicata dai Costituenti nella Carta fondativa della Repubblica democratica italiana, e purtroppo mai tradotta in pratica con obblighi di legge.
Ha scritto Romano Prodi, che con Veltroni diede vita all’unione nel Pd delle grandi tradizioni politiche del cattolicesimo popolare e delle sinistre divenute liberali, che «il confronto è cosa propria del Pd, mentre i partiti personali non possono che operare per scissioni» . E ne consegue, aggiungiamo noi, che, a scissione avvenuta, chi si è messo in bocca il fischietto continua a fare il capotreno: gli esempi, nella politica italiana, sono tanti. Troppi.
Naturalmente, tutto questo non basta e non può bastare. La qualità media del personale politico italiano - tutto e non solo del Pd - non è diversa da quella della classe dirigente comunemente intesa. Ed è una qualità tale da ricordare la tristissima descrizione che del «Carattere degli italiani» fece - esattamente due secoli fa - Giacomo Leopardi, e che fa riflettere su quanto l’Italia sia un Paese inguaribilmente antico. Per stare al Pd, ne ha parlato il suo segretario ancora in carica, nell’ultimo discorso davanti all’Assemblea Nazionale del partito. «Non è possibile che il segretario debba impegnare ogni giorno tutte le energie per ricomporre gli equilibri interni», ha scandito Enrico Letta. Non è possibile perché restano poi solo «ritagli di tempo» per pensare al partito, e a quello che la forza politica deve progettare e fare per il Paese.
Da quando è nato il Pd, non vi è segretario del Pd che sia durato oltre un paio d’anni al massimo, logorato dai cosiddetti capicorrente. Una “litigiosità” (ma si tratta evidentemente di qualcosa di molto peggio) e una durata pari a quella delle coalizioni che han sorretto i governi nell’intera storia repubblicana. E tale da far pensare che non siano le correnti a perigliare la vita di quel partito, ma i capibastone: perché per formare una corrente degna di questo nome occorre che si aggreghi non solo attorno a un capo, ma attorno a un’idea, una visione del partito o del mondo. Le idee e le Weltanshauung consentono il confronto, da cui scendono le mediazioni. Non così la lotta di potere, che fa della politica quel che D’Alema cinicamente chiamava «un gioco a somma zero» : o vinci tu, o vinco io.
La strada di Enrico Letta alla guida del Nazareno si chiuderà con l’arrivo del nuovo segretario. Di cosa sia stata costellata, Letta non lo ha detto. Preferendo, con grande eleganza, dichiararsi ancora «innamorato» del Pd e citare San Paolo: «Sciolgo le vele perché ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, e ho conservato la mia fede». Di Paolo di Tarso le citazioni famose sono molte, e forse se ne potrebbe aggiungere un’altra: «Il tempo si è fatto breve». Per il Pd in modo particolare.