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La pagina nera. Recentemente il Capo dello Stato, nella sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, riferendosi all’inchiesta in corso sugli impropri contatti tra consiglieri del CSM, magistrati e soggetti politici in tema di nomina dei capi di importanti uffici giudiziari, ha parlato di «un quadro sconcertante e inaccettabile», portatore di «conseguenze gravemente negative per il prestigio e l’autorevolezza» non soltanto del CSM, ma dell’intero ordine giudiziario.
Non è purtroppo la prima volta che all’interno della magistratura, che pure ha scritto pagine luminose nella risposta giudiziaria al terrorismo rosso e nero, alla criminalità di stampo mafioso e alla dilagante corruzione, si sono manifestate deviazioni dai compiti istituzionali, ad esempio assecondando scelte e soggetti politici in vista di vantaggi di carriera o incarichi presso organi esterni alla magistratura. Vorrei oggi ripercorrere gli atteggiamenti dei magistrati nei confronti delle leggi razziali antiebraiche del 1938, atteggiamenti nei quali si sostanza una delle più gravi forme di connivenza con il potere politico fascista e di deviazione dai compiti istituzionali di rendere giustizia.
1) In grande maggioranza i magistrati rimasero silenti.
E’ un dato ampiamente condiviso che sino al 1943 l’atteggiamento della popolazione italiana nei confronti della legislazione antiebraica del 1938 fu di sostanziale indifferenza. Nella stragrande maggioranza gli italiani voltarono semplicemente la testa dall’altra parte, come se la cosa non li riguardasse, come se non si trattasse di amici, colleghi, concittadini con i quali avevano da sempre convissuto senza fare caso alla religione professata.
Eppure la persecuzione dei diritti era stata efficacissima e spietata, volta a privare progressivamente gli ebrei della capacità giuridica, a precludere lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, a isolarli da qualsiasi rapporto sociale, sino a condannarli a vere e proprie forme di morte civile.
Salvo rarissime eccezioni, nel quinquennio dal 1938 al 1943 non furono espresse pubblicamente critiche alle misure contro gli ebrei. Al contrario non pochi esponenti della cultura, accademica e non, si spesero in entusiastiche manifestazioni di adesione e approvazione delle leggi e della propaganda antisemita, anche su riviste specializzate quali Il Diritto razzista, La difesa della razza, Razza e civiltà.
E’ altrettanto noto che per oltre quaranta anni dopo la caduta del fascismo un diffuso processo di rimozione ha nascosto sotto un impenetrabile velo di oblio la persecuzione degli ebrei nel quinquennio 1938- 1943: tutto il male dell’infamia razzista è stato proiettato sul periodo della Rsi, sulla deportazione e l’eliminazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, sino a cancellare dalla memoria collettiva l’essenziale funzione preparatoria svolta dalle italianissime leggi antiebraiche del 1938.
Per quanto riguarda in particolare il mondo della giustizia, gli atteggiamenti dei giudici nei confronti della persecuzione antiebraica sono tra le pagine più opache della storia della magistratura italiana.
Pur essendo raggiunti in prima persona dalla pervasività e capillarità delle interdizioni antisemite, i magistrati rimasero inerti, “figure silenti” come sono stati definiti in una documentatissima ricerca sul ruolo dei giuristi in occasione delle leggi antiebraiche del 1938.
Tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, in concomitanza con l’entrata in vigore della legge fondamentale per la difesa della razza italiana dalla “contaminazione ebraica”, il ministro della giustizia Arrigo Solmi chiede a tutti i magistrati una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica al fine di verificare la «purezza razziale dell’intero apparato» . A partire dal mese di gennaio 1939 14 magistrati vengono dispensati dal servizio e altri 4 chiedono di essere messi a riposo per non subire l’onta della dispensa d’ufficio. Così da un giorno all’altro scompaiono dai loro uffici 18 magistrati, ma non risulta che alcuno dei circa 4200 magistrati allora in servizio abbia pubblicamente manifestato solidarietà nei confronti dei colleghi rimossi dal servizio. Tutto continuò come se nulla fosse successo.
I magistrati rimasero silenti allora e, per quanto possa apparire paradossale, continuarono a rimuovere l’infamia delle leggi razziali anche dopo la caduta del fascismo.
Molti magistrati hanno pubblicato nel periodo repubblicano, per lo più in forma autocelebrativa, memorie che coprono anche gli anni del fascismo, ma in nessuna di quelle che ho consultate ho trovato cenni alle leggi razziali antiebraiche.
Il processo di rimozione e di manipolazione del razzismo antiebraico è emblematicamente rappresentato da ciò che ha lasciato scritto un magistrato durante il regime e poi nel periodo repubblicano. Sofo Borghese, giudice militare nei tribunali di guerra e poi nel Tribunale militare di Milano anche nel periodo della Rsi, pubblica nel 1939 e nel 1940 due ampi saggi sul Monitore dei tribunali (“Razzismo e diritto civile”, “Razzismo e diritto penale”), nei quali sostiene tra l’altro che «gli ebrei rappresentano il pericolo maggiore per la nostra razza». Lo ritroviamo giudice del Tribunale di Milano, autore nel 1949 di un commento pubblicato sul Foro italiano dall’inquietante titolo “Considerazioni in materia di leggi e anti- leggi razziali”, ove trova tra l’altro modo di affermare: che «la campagna razziale non fu mai sentita in Italia, dove non è mai esistito un problema ebraico», che «la massa degli italiani ebbe a ribellarsi sin dall’inizio alla immorale campagna razzista», che le leggi del dopoguerra volte a reintegrare i diritti patrimoniali dei cittadini dichiarati di razza ebraica hanno creato in favore degli ebrei una «posizione di privilegio per gli effetti sostanziali, procedurali e tributari». Conclude che «non resta che augurarsi una oculata revisione legislativa, che attenui la portata di disposizioni che per eliminare alcune ingiustizie ( il corsivo è nostro) aprono la via ad altre».
2) Non tutti i magistrati rimasero silenti: “Il diritto razzista” e il Tribunale della razza.
La pubblicazione nel 1939 della nuova rivista Il diritto razzista offre a numerosi alti magistrati, senza esserne richiesti né sollecitati, l’occasione perfetta per esternare la propria fede razzista. Tra coloro che inviarono “vibranti” messaggi di adesione ai contenuti e alle finalità della rivista figurano: il primo presidente onorario della cassazione Alessandro Marracino, i presidenti di sezione della cassazione Ettore Casti, Antonio Azara, Domenico Rende, Salvatore Messina, Guido Mirabile, Oreste Enrico Marzadro, Francesco Saverio Telesio, il consigliere di cassazione Ernesto Eula, il primo presidente Alfredo Cioffi e i procuratori generali di corte di appello Pietro Pagani e Alfredo Janniti Piromallo, Emanuele Piga, presidente della magistratura del lavoro, Adolfo Giaquinto, procuratore generale e poi primo presidente della corte di appello di Roma. In tempi e per periodi diversi, alcuni fecero parte del comitato scientifico e del comitato di redazione, altri pubblicarono sulla rivista articoli più o meno ferocemente antisemiti, tra cui Mario Baccigalupi, giudice del Tribunale di Milano, teorizzatore in una voluminosa monografia del rinnovamento razziale nel pensiero giuridico.
Oltre a queste spontanee manifestazioni filo- razziste, alti magistrati svolgono funzioni nel c. d. tribunale della razza, istituito nel 1939 per esprimere parere sulla facoltà del ministro dell’interno di dichiarare la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile. Ne fecero parte i consiglieri di cassazione Gaetano Azzariti, in qualità di presidente, Antonio Manca e Giovanni Petraccone; capo di gabinetto del presidente fu Giuseppe Lampis, anch’egli consigliere di cassazione.
Tra le richieste di non appartenenza alla razza ebraica numerose sono quelle – si parla di più di cinquanta – di chi intende dimostrare di essere il frutto di una relazione adulterina della madre ebrea con un appartenente alla razza ariana. Il nuovo organismo favorì un vero e proprio mercato delle “arianizzazioni”, alimentato da una schiera di faccendieri e truffatori, di funzionari corrotti e di avvocati di bassa lega.
Assolutamente esemplari dei rapporti di continuità tra il regime e l’ordinamento repubblicano sono le vicende dei magistrati che svolsero funzioni presso il tribunale della razza. Assai noto è lo straordinario cursus honorum del presidente Azzariti, nominato giudice della Corte costituzionale dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel 1955 e poi eletto presidente dai suoi colleghi nel 1957; Manca e Lampis vennero eletti giudici della Corte dai loro colleghi della cassazione nel 1953 e nel 1955, il primo rimase in carica sino al 1968.
Sembra cioè che l’avere esercitato funzioni presso il tribunale della razza sia stato considerato nel periodo repubblicano titolo di merito per essere nominato dal Presidente della Repubblica o eletto dai colleghi della cassazione giudice della Corte costituzionale.
3) I conti con il razzismo antiebraico sono tuttora aperti.
In definitiva, sulla base delle ricerche sinora effettuate, risulta che i magistrati che a vario titolo hanno pubblicamente aderito al razzismo antiebraico sono poco più di una ventina. Non molti, ma quasi tutti posti ai vertici della piramide giudiziaria, e quindi in grado di esercitare una notevole influenza all’interno di una struttura rigidamente gerarchica quale era allora la magistratura. Anche alcuni tra i più compromessi con il razzismo antiebraico o con la RSI hanno poi continuato ad occupare posizioni di vertice nel periodo repubblicano.
Sono già stati menzionati Azzariti, Manca e Lampis, ai quali, per non fare torto a nessuno, si possono ora aggiungere, a titolo di esempio: Luigi Oggioni, già consigliere di cassazione della Rsi, poi primo presidente della cassazione dal 1959 al 1962, nominato nel 1966 giudice della Corte costituzionale dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, ne diviene vice- presidente nel 1975 e rimane in carica sino al 1978; Ernesto Eula, procuratore generale e poi primo presidente della cassazione dal 16 ottobre 1954 al 26 giugno 1959; Antonio Azara, procuratore generale e poi primo presidente della cassazione dal 12 novembre 1952 al 17 gennaio 1953, senatore per la Democrazia cristiana e ministro della giustizia nel governo Pella del 1953; Sofo Borghese, presidente di sezione e poi procuratore generale della cassazione dal 7 agosto 1981 al 6 gennaio 1983. Sono ormai trascorsi più di ottanta anni dalle leggi razziali del 1938, ma il fatto che magistrati, per definizione custodi dei diritti di tutti i cittadini e del principio di eguaglianza, siano stati assertori del razzismo antiebraico mi sembra un accadimento talmente grave da imporre ulteriori sforzi di ricerca. Per verificare ad esempio, attraverso l’esame dei fascicoli personali dei magistrati interessati, se siano rintracciabili elementi che accomunino le varie manifestazioni di connivenza con il razzismo antiebraico.
Altrettanto inquietanti sono, nel periodo repubblicano, la costante rimozione del passato razzista in occasione delle nomine degli alti vertici della magistratura e, più in generale, il dato che le ricerche più approfondite sul ruolo svolto dai giuristi a sostegno delle leggi razziali vedono la luce solo negli anni duemila.
Nuove ricerche su quelle nomine ai vertici della magistratura e alla Corte costituzionale che oggi ci paiono così scandalose sono premessa indispensabile per chiudere i conti non solo con il razzismo del regime fascista, ma anche con la troppo lunga rimozione nel periodo repubblicano, sia all’interno della magistratura che nella società civile.
Il che è tanto più utile e necessario nell’attuale momento storico, in cui anche nella società italiana tornano a circolare i germi nefasti di nuove forme di razzismo e la ricerca di nuovi capri espiatori.