Giuseppe Di Federico è uno dei massimi esperti di Ordinamento giudiziario, materia che ha insegnato per tanti anni ( è professore emerito) nell’Università di Bologna. L’accademico è stato anche componente del Consiglio superiore della magistratura.

Professor Di Federico, il Parlamento in seduta comune si accinge ad eleggere i dieci laici del Csm. Quali sono le aspettative?

In base alle riforme Cartabia, poiché si promuovono le autocandidature delle persone che vogliono andare al Consiglio superiore come membri laici, si dovrebbe fare una scelta più trasparente e si dovrebbe premiare una scelta di merito. A me sembra che questo non sia proprio nell’ordine naturale delle cose. Credo che i partiti seguiteranno a dominare. Si dibatte, infatti, su quanti dovrebbero andare per conto dei vari gruppi parlamentari e nient’altro. Non si parla delle qualificazioni delle persone che si sono autocandidate.

Lei, quindi, teme che il merito degli autocandidati non sarà davvero preso in considerazione dal Parlamento?

Partiamo dai nomi di coloro che hanno presentato la loro autocandidatura. L’avvocato Gaetano Pecorella, per esempio, ha un profilo molto adeguato. È difficile immaginare una persona che abbia più qualifiche di lui, perché è stato per quattro legislature membro del Parlamento e della Commissione Giustizia, della quale è stato anche presidente. Gli scritti di Pecorella, come professore universitario, sono tutti in materia di giustizia. È stato, come avvocato, presidente dell’Unione Camere penali per due volte. Sono evidenti gli elementi di eccellenza della sua carriera professionale.

Ho visto le liste dei candidati. Non mi sembra che nessuno abbia quelle qualifiche. E comunque, anche se ce ne fossero, è difficile che ci siano dieci candidati più qualificati dell’avvocato Pecorella. Temo, però, che ciò non possa bastare. Ci troviamo di fronte ad una specie di cartina di tornasole per verificare l’adeguatezza della previsione innovativa della riforma Cartabia, che per sottolineare il merito ha promosso solo la presentazione delle autocandidature.

Una volta che ci saranno tutti i componenti del Consiglio superiore della magistratura si presenterà la questione rilevante della vicepresidenza. Il profilo del vicepresidente del Csm sarà ancora una volta quello di una persona che tenderà a non irritare il potere?

Noi abbiamo una tradizione ben precisa. Fino agli anni Novanta del secolo scorso, i presidenti di prima nomina, non dei sostituti in corso d’opera, sono stati sempre tutti democristiani. Il centrosinistra è subentrato in maniera molto chiara nel 1996, quando Carlo Federico Grosso ha sostituito Piero Alberto Capotosti, nominato giudice della Corte Costituzionale. Da allora sono stati tutti di centrosinistra, di area cattolica o ex comunista. Questa volta la destra vorrebbe che ci fosse un suo rappresentante. È difficile, però, che ciò possa avvenire.

I componenti magistrati hanno in Consiglio la maggioranza dei due terzi e questo esclude che i dieci componenti laici, anche se fossero tutti concordi, possano avere un ruolo determinante per quella nomina, o per qualsiasi altra decisione del Consiglio. Quando si affrontano questioni di interesse comune, quando si tratta di interessi corporativi o di propri poteri, la magistratura è graniticamente unita. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, certamente verrà consultato per le preferenze del centrodestra. Ma al tempo stesso credo che questa coalizione non potrà avere per i magistrati un grande appeal. Ecco perché, a mio avviso, il desiderio da parte del centrodestra di avere il vicepresidente del Csm non avrà un grande futuro. Si pone però un problema.

Quale?

C’è una norma, l’articolo 67, del Regolamento interno al Csm, il quale prevede che per essere valide le votazioni del Consiglio devono essere presenti almeno cinque componenti laici. Di sicuro il centrodestra ne avrà più di cinque e potrebbe usare il ricatto nel far venir meno il numero legale e impedire l’elezione del vicepresidente. Tale elezione avviene sempre nella prima seduta che si tiene al Quirinale. Tutto questo rende politicamente molto difficile che si possa utilizzare il ricatto del numero legale. In passato, per l’elezione del vicepresidente, quando veniva scelto sempre un democristiano, si chiedeva di far presentare un programma. Cossiga non lo permise anche perché un vicepresidente eletto su un programma sminuisce gli eventuali poteri che vuole esercitare il presidente della Repubblica come presidente del Csm.