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giustizialismo
Già s’era scelto un alias terribile: la bestia. Poi non è che Luca Morisi avesse lesinato, quanto a punture di veleno iniettate via social, e non solo per interposto Salvini, sia charo. Il guru che ha “creato” la macchina del consenso leghista se n’era uscito persino con un’offesa via twitter a Rita Bernardini, in un orrendo link fra le battaglie della leader radicale per la cannabis terapeutica e le rughe. Insomma, un personaggio così, che ha ispirato manco fosse lo sbarco in Normandia la citofonata del Capitano al maghrebino presunto spacciatore, se finisce indagato per cessione di droga, è chiaro che provoca il riflesso pavloviano degli avversari politici (non molti) e soprattutto dei giornali, che lo hanno fatto a pezzi. E magari adesso sarà dura schierarsi con Matteo Salvini, dopo che ieri ha parlato di «schifezza mediatica». Eppure bisogna leggerla bene, la tempesta perfetta scatenata sul capo del Carroccio. Soprattutto nel combinato disposto fra l’indagine su Morisi, la scadenza elettorale e un terzo elemento: il clima diverso che in fondo da un po’ si era cominciato a respirare sulla giustizia. C’era aria di distensione, diciamo. Forse dovuta alla minore autorevolezza della magistratura, più che ferita dai casi dell’Hotel Champagne e dei verbali di Amara. Però i segnali si sono avvertiti fino ancora all’altro ieri, quando Luigi Di Maio ha dato un esempio forse ancora più brillante delle scuse all’ex sindaco di Lodi: ha detto che la sentenza d’appello sul processo “trattativa” «va rispettata», altrimenti la politica finisce per esercitare «un’ingerenza nei confronti di un altro potere». Esemplare, mirabile ma forse non ancora del tutto rassicurante, e non per demerito di Luigi Di Maio. Quell’apice della “primavera giudiziaria” offerto dal ministro degli Esteri resta comunque. Ma gli attacchi sferrati, per il caso Morisi, a Salvini e alla Lega nella settimana che precede le elezioni destinate all’esito peggiore, per il Carroccio, degli ultimi due lustri, ci spiegano una cosa: che a dispetto delle apparenze, il giustizialismo non è ancora finito. L’uso mediatico e politico delle vicende penali non è in disarmo, vive e lotta insieme ai tanti media che inevitabilmente sanno dargli alimento alla prima occasione succosa. D’altronde l’impennata non ha riguardato solo la Lega. In coincidenza con lo sprint della campagna elettorale sono arrivati anche il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi e le rivelazioni del quotidiano Domani sulla “rete di potere” di Giuseppe Conte. Non si possono cambiare né le “coincidenze” né la tendenza dell’informazione. Non può farlo, da sola, una guardasigilli attenta alle garanzie come Marta Cartabia. O una maggioranza che, con 5 anni di ritardo, permette finalmente all’Italia di recepire la direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Non basta l’intuito politico di un leader come Di Maio, che vuole tirar fuori il Movimento 5 Stelle dalla risacca del rancore giustizialista. E non ci vorrà certo poco tempo perché la nuova aria che si respira in Parlamento sulla giustizia si riverberi non solo sui giornali ma addirittura nell’opinione pubblica. Insomma, c’è poco da fare: l’epopea giustizialista non è archiviata. Forse è iniziato un percorso. Ma sarà lungo. In Svizzera è vietato alla stampa riferire delle misure cautelari adottate nei confronti degli indagati. Magari è troppo, e non è detto che sia auspicabile realizzare un riforma del genere anche in Italia. Eppure, se i processi culturali sono lenti, quelli legislativi possono esserlo assai meno. Servono insomma norme che rafforzino ancora di più la presunzione d’innocenza (nonostante ne sia tuttora perplessa l’Anm, audita ieri a Montecitorio), e ce ne vogliono ancora altre che tutelino dagli errori giudiziari, che rafforzino il diritto all’oblio, il contrasto alla pubblicazione arbitraria degli atti penali, la dissuasione dal protagonismo mediatico di cui alcuni magistrati sembrano prigionieri. Se c’è una cosa che è possibile mettere in campo subito, senza aspettare che il riflesso pavloviano contro “la bestia Morisi” si attenui, è introdurre buone leggi che rafforzino le garanzie e che soprattutto contrastino il processo mediatico. Può darsi che poi l’intendenza, cioè un’accresciuta civiltà del dibattito, seguirà.