PHOTO
Nicola Zingaretti con Dario Franceschini, ex ministro dei Beni culturali e ora deputato del Pd
Quello che è poco ma sicuro è che Dario Franceschini sia stato troppo sicuro di sé nel teorizzare una «alleanza strategica», addirittura «permanente», con il Movimento 5 stelle. A ripeterla oggi, visto lo sconquasso in casa grillina, viene da sorridere: «strategica» un'intesa con un partito che non si sa bene cosa sia e che domani potrebbe spaccarsi in due e dopodomani addirittura non esistere più? Sarebbe legittima una messa a punto della “linea” franceschiniana.
Invece niente, non vola una mosca e in fondo è quello che il Pd sa fare meglio: far finta di nulla e aspettare che passi la nottata. D'altra parte, affari loro, di Di Maio e degli altri compañeros. È chiaro però che le rivelazioni sulla presunta dazione di denaro venezuelano al Movimento e il contemporaneo cortocircuito innescato dall'ennesimo ritorno di Alessandro Di Battista alimentano al Nazareno la grande paura di uno smottamento della maggioranza. Il Pd la esorcizza evocando le urne se Conte dovesse cadere ma è come una pistola ad acqua perché in queste condizioni le elezioni per Zingaretti sarebbero una tragedia che non sarebbe certo alleviata da un prevedibile crollo del pentastellati: in politica ilmal comune mezzo gaudio non esiste.
Però c'è da chiedersi dove sia finita la sapienza tattica della Ditta che fu. Perché oggettivamente il partito di Zingaretti e Franceschini si trova oggi impigliato in una selva di rovi che quotidianamente producono ferite su un corpo già prostrato, una situazione tutt’altro che smagliante che si riflette anche sui sondaggi ( per la terza settimana di fila Swg dà il Pd in flessione, ora al 19 per cento).
Il gran trambusto pentastellato rischia perciò di infittire il buio strategico del Pd, ridotto a fare affidamento per un ritorno di un minimo di razionalità su Vito Crimi e Paola Taverna: c’è poco da stare allegri.
Mentre Goffredo Bettini continua a puntare tutto sulla “autorevolezza” di un comico, Beppe Grillo, e dunque starebbe al demiurgo del populismo il potere di stabilizzare il quadro politico. Pare di sognare, ma la linea non cambia di un millimetro. Pragmatico, Andrea Romano: «Il Pd esercita una sorta di funzione maieutica sul Movimento Cinque Stelle, spingendolo ad assumere posizioni sempre più mature. E pur nella differenza che ci separa e ci separerà, confidiamo che la collaborazione di governo con il Pd spinga quel movimento a diventare sempre più un partito radicato nella realtà italiana e capace di contribuire alle riforme che servono al Paese».
Addirittura, i più ottimisti escludono ripercussioni negative sulla tenuta del governo e immaginano anzi che la crisi del M5S possa essere “un’opportunità” in quanto potrebbe liberare forze ( e voti) proprio in favore del Pd.
Sarebbe un bel paradosso, l’esatto contrario della franceschiniana “alleanza strategica”, una traiettoria imprevista che potrebbe resuscitare, e non per scelta consapevole, l’idea di una specie di “vocazione maggioritaria” di un Pd che mangia tutti e si presenta come l’unica alternativa alla destra.
Ma il vero problema è che oggi il partito di Zingaretti e Franceschini non sembra proprio avere il fisico per reggere una sfida del genere. Avanti così, dunque. Fino al prossimo scossone.