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Luciano Violante è uno dei politici, non molti purtroppo, sui quali il tempo non scorre inutilmente, risparmiando loro la sorte infelice di essere dei paracarri, fermi al loro posto a fare da guardia non si sa più a chi e a che cosa, peraltro in una società e in un mondo che cambia a velocità parossistica. E che i partiti pensano di inseguire moltiplicandosi e improvvisandosi per conquistare magari il 32 per cento in un anno, come hanno fatto i grillini, e dimezzarsi l’anno dopo, sorretti solo da una forza residua di quelle istituzioni che vorrebbero invece travolgere.
A salvare i pentastellati, per esempio, dallo scioglimento anticipato delle Camere, che li avrebbe fatti scendere ancora sotto il 17 per cento cui li aveva ridotti nelle elezioni europee del 24 maggio scorso l’alleanza di governo con i leghisti, è stata la solidità, sia pure relativa, di un sistema parlamentare, e relative garanzie di durata e di funzionamento, che proprio loro vorrebbero segare sostituendo la democrazia rappresentativa con quella digitale, le urne vere con le cosiddette piattaforme, o trasformando l’istituto referendario in un sisma permanente. Sono tutti temi, questi, di fronte ai quali immagino le apprensioni proprio di Violante, che da presidente della Camera si è fatta una certa esperienza.
Eppure non è di questo e per questo che scrivo di lui a proposito del tempo, come dicevo, che non è passato inutilmente e ne ha fatto invece un politico a tutto tondo. Ne scrivo per il completamento della sua evoluzione avvertita nella bella intervista a Carlo Fusi pubblicata sabato scorso sul Dubbio.
Già sottrattosi negli anni passati, criticando con vigore certe pratiche giudiziarie, al rischio del giustizialismo corso col contributo dato per un certo tempo, volente o nolente, e forte della sua provenienza dalla magistratura, ad una concezione dei rapporti fra giustizia e politica secondo me non proprio paritaria, Violante ha avuto il coraggio adesso di toccare un nervo scoperto del suo partito, il Pd. Lo ha fatto peraltro nel momento in cui il segretario Nicola Zingaretti si è proposto l’obiettivo di una sua “rifondazione”. Che è un progetto alquanto generico e fuorviante, com’è accaduto ad altre rifondazioni nell’area della sinistra, se non si scioglie prima quello che Violante ha definito “un nodo”, ma che sono tentato di chiamare “il nodo” del Pd: chiudere definitivamente con la tradizione comunista, riconoscendo che il comunismo «è stato insieme un grande strumento di libertà all’opposizione e di oppressione quando ha governato». E’ ora di rendersi finalmente consapevoli - ha detto testualmente - che «un partito socialdemocratico è ciò che serve. Il Pd - ha aggiunto Violante non può essere una riedizione del cattocomunismo».
Più chiaro e deciso mi sembra che l’ex presidente della Camera non potesse essere, anche a costo - penso - di fare storcere il naso e drizzare i capelli a buona parte, almeno, della componente del Pd di provenienza democristiana.
Che ancora soffre, quanto meno, a sentir parlare di socialismo o socialdemocrazia e sarebbe magari tentato di ritorcere contro Violante il riconoscimento da lui stesso fatto, nella medesima intervista, che «il cristianesimo è il solo a durare da duemila anni».
Eppure è toccato proprio a un piddino - sino a qualche settimana fa - di provenienza sostanzialmente democristiana, Matteo Renzi, trovare il coraggio, mancato ai suoi predecessori Walter Veltroni, Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani e Guglielmo Epifani, nell’ordine della loro successione, di portare il Pd nella famiglia del socialismo europeo.
Sembra un paradosso, almeno per quello che poi ha fatto Renzi uscendo dal partito e mettendosi in proprio con la sua Italia Viva, ma questo è avvenuto nella storia poco più che decennale del Pd. La cui fondazione, al di là delle stesse intenzioni dei promotori, si è rivelato più un espediente che una soluzione al problema avvertito da entrambi i principali artefici - quel che restava del Pci e della sinistra democristiana - di definire una nuova identità dopo gli sconvolgimenti seguiti alla caduta del comunismo e al crollo della cosiddetta prima Repubblica per via giudiziaria, prima ancora che politica ed elettorale.
Massimo D’Alema fu il primo e il più esplicito a parlare di quell’operazione come di «un amalgama mal riuscito». Cui d’altronde si erano opposti, prevedendone gli effetti più negativi che positivi, fior di politici di entrambi gli schieramenti: da una parte, per esempio il comunista Emanuele Macaluso, e dall’altra il democristiano Gerardo Bianco, che addossò la colpa di una fusione troppo e inevitabilmente fredda soprattutto a Romano Prodi.
La fusione illuse i post- comunisti di potersi sottrarre alla resa dei conti con la fine della loro ideologia e i post- democristiani di poter alla fine realizzare, senza danni per loro, una volta che il comunismo era caduto, lo scenario del compromesso storico impietosamente indicato nella sua analisi da Violante.
Esso peraltro nella Dc non fu perseguito neppure dall’uomo più aperto al dialogo e al confronto, Aldo Moro, contrariamente a quanti ne scrivono ancora come di un simbolo, più ancora di Enrico Berlinguer che l’aveva proposto. Moro si fermò alla «tregua», come lui stesso la definì, di una “solidarietà nazionale” a termine, garantita a suo modo dal carattere monocolore democristiano del governo e dal solo appoggio esterno del Pci.