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Si può parlare di garantismo economico? Od è meglio fare riferimento alla laicità? In entrambe i casi, forse le analisi sull’andamento dello spread andrebbero depurate dalle emozioni e simpatie politiche. Ieri il differenziale tra i Btp decennali e l’analogo titolo tedesco è oscillato pericolosamente intorno ai 290 punti base; con un aumento di oltre il 10 % in una settimana. Il peggioramento è figlio di un “combinato disposto”, rappresentato dalle frasi poco oculate di Matteo Salvini (ma anche di Giuseppe Conte) e dalla congiuntura tedesca. La scintilla l’ha innescata ( con una sconcertante dose di superficialità) il vice presidente del Consiglio quando, l’altro giorno, ha annunciato che l’Italia non deve rispettare il limite del rapporto deficit/ pil definito a Maastricht. Cioè, il nostro Paese - a suo dire - può e magari perfino deve superare l’asticella del 3%. A quel punto, lo spread ha preso a salire.
E’ assai improbabile che Salvini fosse a conoscenza che ieri mattina Eurostat avesse comunicato i dati del pil del primo trimestre dell’Eurozona. Ed è ugualmente altamente improbabile che sapesse che nel primo trimestre dell’anno la Germania fosse in ripresa, con una crescita dello 0,4% che mandava in soffitta il rallentamento dell’ultimo trimestre dello scorso anno. Il tonico andamento economico di Berlino ha prodotto un fenomeno (abbastanza scontato) sul mercato dei capitali. Migliaia di gnomi nascosti dietro i pc hanno iniziato a comprare titoli pubblici tedeschi, con il risultato che il tasso di mercato dei Bund (i titoli decennali tedeschi) ha iniziato a scendere; tendenza ribadita nel pomeriggio di ieri dopo il rinvio di sei mesi dei dazi sulle auto europee annunciato da Trump. Come in un sistema di vasi comunicanti, se i tassi tedeschi scendono, lo spread italiano cresce. Ed è esattamente quel che è avvenuto, visto che lo spread misura la differenza tra i titoli decennali italiani (Btp) e gli analoghi titoli tedeschi. La conferma della tendenza ieri sul mercato non viene tanto dallo spread italiano, ma dal raffronto con quelli degli altri Paesi. Tutti con segno negativo. In altre parole, la riduzione accentuata (visto il buon andamento economico) dei tassi di Berlino ha peggiorato lo spread di tutta l’Eurozona.
Da noi, però, la forbice si è allargata più che altrove. E qui entra in ballo la “faciloneria” economica di Salvini («Il deficit deve superare il 3%») e l’improvvida dichiarazione del presidente del Consiglio. Nei giorni scorsi, la Commissione europea con le sue Previsioni di Primavera ha annunciato che, in assenza del rispetto delle clausole di salvaguardia, il deficit italiano del 2020 sarebbe arrivato al 3,5%. Insomma, senza aumento dell’Iva l’indebitamento sarebbe volato. Oggi Conte, forse nel tentativo di smorzare le tensioni innescate da Salvini, ha detto che difficilmente il governo riuscirà a non far scattare le clausole di salvaguardia. Dando così un doppio messaggio negativo. Primo messaggio, interno: aumenta l’Iva (così com’è scritto nel Def). Secondo messaggio: il Pil, forse, non crescerà nemmeno dello “zero virgola” previsto dal governo.
Lasciar scattare gli aumenti dell’Imposta sul valore aggiunto ha chiaramente effetti depressivi sull’economia; soprattutto se non accompagnata, in parallelo, da misure di stimolo. Se aumentano i prezzi ( fenomeno conseguente ad un ritocco dell’Iva) senza aumentare il potere d’acquisto delle famiglie si rischia di innescare una depressione economica violenta, ancora più dell’attuale.
Ed è esattamente quel che gli operatori hanno letto fra le righe delle dichiarazioni del presidente del Consiglio. Il calvinismo che permea la filosofia e la morale degli gnomi da computer impone loro di analizzare i fatti depurati dalla campagna elettorale. In cuor loro, per tornare a comprare titoli italiani, si aspettavano che Conte smentisse le frasi di Salvini; soprattutto, vista la tensione che già si stava registrando ieri mattina sui tassi e la contemporanea discesa di quelli tedeschi. Non lo ha fatto. L’assenza di una smentita è stata letta come conferma dell’intenzione del governo italiano di superare l’asticella del 3% di deficit. Ed il mercato si è adeguato di conseguenza.
Tra l’altro, indipendentemente dalla composizione del prossimo Europarlamento e della prossima Commissione Ue, nessun governo italiano potrebbe azzardarsi a pensare realmente di superare il 3%, in piena autonomia. Di certo, non prima aver ricevuto tutti i via libera europei.
Se qualcuno lo pensasse realmente, l’Italia entrerebbe immediatamente in procedura d’infrazione per deficit e debito eccessivo; le agenzie di rating abbasserebbero ulteriormente il loro giudizio sulla sostenibilità del debito italiano, e gli investitori istituzionali ( per prima la Bce) dovrebbero liberarsi dei titoli pubblici in portafoglio.
Semprechè, uno sfondamento del deficit non venga concordato con Bruxelles. Nel 2005, l’Italia ci riuscì. Portò il deficit al 4% con la benedizione europea ed abbassò il debito al 100%. In cambio, offrì una riforma fiscale con abbassamento delle aliquote Irpef ed una riforma delle pensioni (lo scalone Maroni). Per queste ragioni, forse un po’ di laicità (ed una minore approssimazione) nelle valutazioni e dichiarazioni economiche sarebbe un bene per il Paese.