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Stretto tra alleati di governo che si atteggiano come se del governo fossero i più fieri oppositori, il Pd di Nicola Zingaretti ha infine battuto un colpo chiamando alla cancellazione delle leggi di Salvini su immigrazione e ordine pubblico, e all’approvazione dello ius culturae. È l’ultimo miglio, perché si sa che - per quanto non sembrino a rischio le elezioni regionali in Emilia e Romagna, dato il gradimento al governatore Bonaccini e gli strafalcioni della competitor leghista - il governo barcolla costantemente per motivi endogeni.
E dunque, per quanto meritoria, la presa di posizione di Zingaretti rischia non soltanto di trovarsi di fronte il muro che infatti prontamente Di Maio ha già alzato, ma anche di dar l’impressione al proprio popolo, ai propri militanti, e anche ai potenziali elettori, di aver atteso l’ultimo minuto per dare il senso forte della propria presenza politica, al governo come nel Paese. Come se fosse un gioco in cui il tempo è una variabile indipendente, e come se il gioco fosse affermare una propria idea dell’Italia solo quando proprio non se ne può più fare a meno, com’è per l’appunto avendo alle viste elezioni dal valore strategico, o quando non si ha ( quasi) più nulla da perdere, come può esser valutata la presenza in un governo che ha sempre più un andamento da sonnambuli ( intesi come quelli di Hermann Broch, che non si avvedevano dell’avvento della Grande Guerra).
I problemi attengono tutti alla condizione in cui il Pd si è determinato a dar vita al governo, al modus col quale ha condotto e conduce i rapporti col partito di maggioranza relativa, i 5S. Ma alla fine, son tutti problemi riconducibili all’identità politica del PD: indeterminata, strattonata dentro e fuori dal proprio perimetro, amleticamente soggetta a pulsioni contrastanti. E non da oggi: da sempre. In una parola: Il Pd sembra essere un partito i cui membri sono disponibili a tutto, e al contrario di tutto.
Norberto Bobbio disse che solo sapendo chi si è si può sapere cosa si deve fare, perché è solo da valori e riferimenti chiari che può discendere ed affermarsi l’azione di un partito. E solo non sapendo chi si è si può arrivare ad attendere, come è successo, lunghi mesi per far sentire forte e chiara la propria voce, quella del più grande partito della sinistra italiana, come il Pd continua a definirsi. Chiedere la cancellazione di norme in larga parte oltraggiose verso la democrazia italiana così come è definita dalla Costituzione - che è poi il cuore dei richiami scritti da Mattarella al momento di controfirmare quelle leggi- e affermare che si deve dare cittadinanza piena ai nuovi italiani ( questo è lo ius culturae......) significa affermare la propria identità politica. Il Pd non avrebbe dovuto forse porre queste come pre- condizioni per la nascita del governo Conte2? E non avrebbe potuto anche porre il tema di un passo indietro di Luigi Di Maio, leader traballante e non più in grado di trovare pieno seguito nemmeno nei propri gruppi parlamentari e che, oltre ad aver dimezzato i propri consensi alle elezioni europee, aveva mostrato piena adesione ( per non dir sudditanza) nei confronti di Salvini e delle sue “politiche”?
Invece, il Nazareno guidato da Nicola Zingaretti come sappiamo s’è mosso verso Palazzo Chigi subendo l’iniziativa politica di Matteo Renzi, fronteggiata in versione appena corretta da Goffredo Bettini, ovvero una ricerca di alleanza coi 5S in corso d’opera, e per un governo di legislatura ( Renzi lo vedeva invece all’epoca come un esecutivo “istituzionale”, che nel suo modo di esprimersi significava semplicemente “breve”). Poi ha manifestato semplice resilienza. Una sorta di ” business as usual” in un’alleanza di governo nella quale invece di usuale non c’era e non c’è un bel nulla, non il contesto, non lo specifico politico, e tantomeno le affinità. La condizione ideale, si sarebbe potuto pensare ( e chi scrive questo pensava all’epoca) per affermare la propria capacità politica, e il proprio progetto del Paese. Invece, niente.
Non si può far carico a Nicola Zingaretti, che ha appunto nella resilienza il principale tratto personale, messo in campo nel riuscire a tenere assieme il partito mentre governa una regione in dissesto come il Lazio, e cercando pure di mitigare i pasticci che il Campidoglio non lesina. Ma chiamare troppo tardi a una politica precisa, e per l’appunto identitaria, con l’affer-mazione dello ius culturale e la cancellazione dei decreti- Salvini, rischia di essere una manifestazione di debolezza. Farlo senza convocare un congresso straordinario del Pd per la costruzione di un progetto per l’Italia, ancora di più. Come se in tutta la politica italiana di oggi, e in verità non solo nel Pd, bastasse fare affermazioni. Come se non occorresse anche metterle in pratica, e farlo creando le condizioni perché siano praticabili. Come se ci si fosse dimenticati che la politica non è prendere posizione: è sapere l’effetto e le ricadute che quelle affermazioni provocheranno.