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Che poi basterebbe leggere la lettera di dimissioni del ministro Fioramonti e riandare con la mente alle accuse di «snaturamento» del M5S, per ricavarne elementi sufficienti per chiudere subito la discussione. E invece il tema sollevato da Paolo Mieli sul Corriere riguardo al ritorno e consolidamento di uno schema bipolare, con annessa competizione tra un centrodestra a trazione salviniana e un centrosinistra imperniato sull’asse Pd-grillini, merita un approfondimento. Per l’autorevolezza dell’autore, e perché vellica il compiacimento dei tanti - tra cui chi scrive - che hanno sempre considerato gli aedi del “destra e sinistra non esistono più” espressione di superficialità d’analisi o malafede per scantonare le responsabilità. Dunque l’epoca del “cambiamento” si chiude con un ritorno al bipolarismo dei primi anni ’90? Osserviamo da vicino i due attuali aggregati per capirne meglio la consistenza. A destra non c’è dubbio che la leadership è saldamente in mano a Salvini. Ma non c’è altrettanto dubbio che l’avanzata della Meloni pone problemi non facili di assestamento e identità: meglio il liberismo dei piccoli imprenditori padani o l’interventismo statale degli eredi della tradizione Msi-An? Senza contare che se Berlusconi è in ripiegamento (sicuri?), altre formazioni nascono e fanno inflorescenza in quell’ambito: vedi “Voce libera” di Mara Carfagna, gli affondi di Toti, eccetera. Se poi qualcuno avesse dubbi sulla scarsa coesione del destra-centro può dare un’occhiata al puzzle delle candidature per le regionali: una marmellata di individualità. Non che le cose migliorino sul fronte opposto. Mieli sostiene che il Pd ha prevalso sui Cinquestelle. Ma concessioni autostradali (che significa politica industriale); prescrizione (che vuol dire concezione dello Stato di diritto) e scelte istituzionali (dal taglio dei parlamentari agli attacchi a Bankitalia) lasciano intendere che l’obiettivo, se davvero esiste ed è perseguibile, è di là da venire. Insomma il paradosso è che se il bipolarismo (forse) esiste, sono i Poli che (sicuramente) mancano. Per una ragione semplice: i contenitori politici non si costruiscono (o non solo) sulle convenienze: al contrario, serve un progetto, un’idea di Paese condivisa. Cemento che latita. Senza contare che il bipolarismo è perseguibile se c’è un meccanismo elettorale che lo consente. E qui altro che nebbia: al di là dei tentativi in atto, infatti, la distanza tra i protagonisti: tra chi cioè vuole il proporzionale puro per fare da ago della bilancia (Di Maio); chi sogna l’uninominale all’inglese (Calderoli); chi qualunque sistema purché arrivi a palazzo Chigi (Salvini); chi qualunque sistema purché possa sopravvivere (Italia Viva e Leu), è siderale. Ne consegue che il bipolarismo attuale è fatto di cartapesta. Quello futuro è come l’intendenza di De Gaulle: seguirà.