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Le grandi manovre sulla legge elettorale non nascono a caso. No. Nascono, manco a dirlo, per motivi d’interesse: primum vivere, deinde philosophari. Al Pd non piace più il sistema Rosatellum dal nome di Ettore Rosato, padre della sullodata riforma. E il fatto che quando l’ha concepita fosse un deputato del Pd, ora passato alla renziana Italia Viva, se mai ve ne fosse bisogno conferma l’assunto di partenza. D’altra parte, non occorre aver letto I Promessi sposi per sapere che il latinorum spesso nasconde fregature belle e buone.
Ma non lo fu il Mattarellum, che ci regalò un bipolarismo e, con esso, l’effettivo potere degli elettori di scegliersi per la prima volta non solo i parlamentari ma anche il governo. E poco importa se a battezzare il Mattarellum per celia fu quel grande scienziato della politica che è stato Giovanni Sartori. Perché, conterraneo del fiorentinissimo Gino Bartali, anche per Sartori era tutto sbagliato e tutto da rifare. Non si è, parola di Curzio Malaparte, maledetti toscani per caso.
E perché no al Rosatellum? E’ presto detto. Per il semplice motivo che la predetta legge prevede collegi uninominali all’inglese per un terzo e per due terzi proporzionale con liste bloccate. Dal momento che nel volgere di poco tempo – a riprova dell’accelerazione della storia – la Lega è diventata grande e grossa, con l’attuale meccanismo si aggiudicherebbe la maggior parte dei collegi uninominali e almeno un terzo dei seggi nella proporzionale. Con il risultato che Matteo Salvini, con il concorso di una Giorgia Meloni che cresce a vista d’occhio e di un Silvio Berlusconi non più in forma come un tempo ma ancora dotato di un gruzzolo di voti, vincerebbe alla grande le elezioni. Ecco, se così stanno le cose, allora – hanno ragionato le teste più lucide del Pd – il Rosatellum non va più bene.
Va cambiato registro. Sì, ma come? Un’ideuzza, per il vero, gli alti papaveri democratici l’avrebbero. Ma si direbbe che è sparita prima ancora di essere concepita nei suoi dettagli. Si tratterebbe del doppio turno nazionale, un po’ come si verifica per l’elezione dei sindaci. Grazie al premio di maggioranza conferito alla lista vincente, la mitica governabilità sarebbe assicurata. Si dà il caso però che anche in tema di riforme elettorali poco si crea e nulla si distrugge. E già, perché s’intendeva riesumare grosso modo quell’Italicum tanto caro a Matteo Renzi, ma bersagliato dalla Corte Costituzionale e mai messo alla prova. Fatto sta che la riesumazione del fantasma dell’Italicum ha avuto la pressoché unanimità dei dissensi. Per i più diversi motivi non piace a nessuno. E una riforma elettorale dovrebbe avere un largo consenso. Perché le regole del gioco non sono appannaggio di nessuno in un Paese serio.
Così si è addivenuti a più miti consigli. Due le opzioni in campo: o il sistema spagnolo, caratterizzato da piccole circoscrizioni senza recupero dei resti a livello nazionale, che avvantaggia i partiti maggiori; o proporzionale classica con sbarramento al 4 o al 5 per cento, che però ha almeno una controindicazione. Infatti in questo caso gli elettori darebbero una delega in bianco ai partiti che, con tutto comodo, se la giocherebbero dopo la chiusura delle urne. Dobbiamo convenire che questo non è un inconveniente da poco. Eppure, oggi come oggi, questa soluzione potrebbe essere accolta un po’ da tutti. La verità è che i partiti sono in crisi d’identità. Gli elettori, che ormai guardano poco per il sottile, spesso dicono con una punta di demagogia che si assomigliano un po’ tutti. Con il risultato di gonfiare le vele all’astensionismo.
La proporzionale garantirebbe ai partiti di procedere in ordine sparso, rimarcando la loro identità. Distinti e distanti. Giulio Andreotti, che conosceva i suoi polli, soleva dire che se l’Italia si divide, non si divide in due ma va in mille pezzi. Certo, la proporzionale non è il miglior tonico per la stabilità ministeriale. Su questo tasto batteva e ribatteva un costituzionalista con i fiocchi come Giuseppe Maranini. Favorevole a quel sistema elettorale all’inglese rilanciato dal leghista Calderoli con il suo referendum. Che – hai visto mai? – potrebbe essere ammesso dalla Consulta perché la legge uscita dal referendum sarebbe pronta all’uso dopo appena sessanta giorni. Cioè il tempo necessario per il ritaglio dei collegi da parte del governo già delegato ad hoc dalla legge 51 di quest’anno. Non a caso patrocinata da quella vecchia volpe di Calderoli.
Tutto è a posto e nulla è in ordine? Parrebbe di sì. Perché Salvini non esclude a priori la proporzionale. Ma, ecco il punto, deve garantire – lo ha detto al Corriere della Sera – che chi vince poi possa governare. Ma allora nulla di più facile. Basterà dare ascolto alla Meloni, che da tempo propone un patto elettorale tra chi intenda dopo il voto governare assieme. Non occorre un notaio. Basta sottoscriverlo al cospetto del tribunale dell’opinione pubblica. E il gioco è fatto.