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Luca Morisi
Certo, lo capiamo, la tentazione è forte: Luca Morisi, la “Bestia", beccato, a quanto pare, con una non meglio precisata quantità di droga, è il ghost writer di Matteo Salvini, il politico più ferocemente proibizionista del momento. E noi tutti abbiamo ancora negli occhi il video della famigerata citofonata nella quale il leader della Lega accusava un ignaro signore di origine marocchina di spacciare droga nel quartiere. Un gesto di inaudita violenza e di cieco proibizionismo che Morisi, chi altri sennò, fece circolare sui social e sulla rete alla velocità della luce. E quanti post (siglati sempre da Morisi) potremmo scovare nella bacheca del leader leghista che trasudano odio e sentenze sommarie nei confronti di piccoli spacciatori, spesso solo presunti? Insomma, potremmo anche pensare che, in fondo in fondo, la tentazione della resa dei conti, della rivincita social che in queste ore leggiamo sulle testate più “ostili” al leader leghista è più che giustificabile. Ma la vittima di questo tiro al bersaglio, di questa gogna 4.0 non è Morisi, ma il nostro Stato di diritto e quella rete di garanzie che ogni indagato deve veder tutelate: anche uno che si fa chiamare la Bestia. I processi sommari non feriscono solo la persona Morisi, ma indeboliscono la presunzione di innocenza, il diritto di difesa scolpito nella nostra Costituzione. E gli zelanti giudici della pubblica morale dovrebbero ricordare che se oggi tocca a Morisi finire crocifisso dal tribunale del popolo, domani può toccare a ognuno di noi. Ma, a quanto pare, trent'anni di marcia giustizialista non sono bastati. Eppure sono passate solo poche ore dalla storica sentenza che ha smontato come un castello di lego la presunta (ma a questo punto possiamo dire inesistente) trattativa Stato-Mafia. Ed evidentemente non è stato sufficiente vedere il volto provato di chi ha passato, da innocente, questo interminabile calvario mediatico-giudiziario: parliamo di uomini dello Stato dipinti come “compari” dei mafiosi e di uomini delle istituzioni travolti dal fango. Un nome su tutti: Loris D’Ambrosio, il consulente giuridico dell'allora presidente Napolitano morto di infarto dopo essere stato tirato dentro la palude mediatica costruita attorno alla Trattativa; “ferito a morte - disse Napolitano il giorno del suo funerale - da una campagna violenta e irresponsabile”. Ma la lezione, a quanto pare, non è servita.