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C’ è una preoccupazione che staziona nell’animo di Aldo Masullo, filosofo, classe 1923, 96 anni compiuti il 12 aprile scorso. Riguarda il rapporto uomo- tecnica. Riguarda l’uso della tecnologia. Riguarda il futuro dell’umanità. Un pensiero che solo degli sciocchi possono ritenere incongruo in un uomo della sua età. E’ il pensiero della guerra. «A partire dal 1900 - spiega con quella voce in cui la ” r” molata alla napoletana è inconfondibile la diffusione dello strumento tecnico, il suo perfezionamento, la capacità della tecnica di migliorare sé stessa, ha prodotto una situazione del tutto nuova. A partire dal 1970 alcuni studiosi tra cui il sociologo francese Jacques Hellul, ipotizzarono che la tendenza del processo tecnico fosse di diventare una totalità. Cioè non più un sistema tra gli altri che costituiscono la realtà dell’uomo bensì il sistema che tutti li assorbe, compreso quello economico, quello politico, pedagogico e così via.
Un mostro che tutto inghiotte, insomma...
Esattamente. Sono poi intervenuti altri aspetti ancora più incisivi. Nel 1970, infatti, le tecniche informatiche erano appena agli albori. Da allora hanno fatto un salto qualitativo e quantitativo di estrema importanza.
Un salto che rappresenta un pericolo o una opportunità? Qual è il significato per la natura umana?
Il medesimo che tutti i filosofi e sociologi paventano: che l’uomo finisca per diventare lui uno strumento della tecnica e non il contrario. È un problema che capisco e che mi preoccupa. Tuttavia bisogna tener conto di un aspetto che davvero inquieta e che non viene quasi mai ricordato. Vede, la variabile totalizzante della tecnica è impregiudicata: non si può davvero sapere se e quando si autocompirà. Incombe su tutta l’umanità, invece, una situazione esplosiva. E cioè che le tecniche nel loro dispiegamento vengono utilizzate dai grandi Stati come meccanismi di armamento. È in atto una corsa al perfezionamento delle tecniche tale da comportare il pericolo di uno scontro armato di dimensioni apocalittiche. Questo è il vero rischio concreto, immediato, che mi pare la maggioranza dei miei colleghi filosofi non colgano. La tecnologia è diventata lo strumento che nelle mani di un soggetto politico, militare e quant’altro, lo può far diventare padrone del mondo.
Insomma stiamo precipitando, più o meno inconsapevolmente, in uno scenario di guerre totale. Una sorta di Armageddon.
Il rischio esiste. Certamente possono esserci volontà diverse. Lo scienziato che studia per guarire determinate patologie, non pensa certo alla guerra. Quello che lavora per migliorare la comunicazione tra un punto e l’altro del mondo, non pensa alla guerra. Ma costoro da chi sono finanziati? Il piatto forte dell’enorme spesa per la ricerca è costituito dalla ricerca militare e per gli armamenti.
Professore, lei non vede anche il pericolo che in attesa della guerra finale, lo dico con ironica preoccupazione- la tecnologia nel frattempo condizioni l’agire umano? Con algoritmi studiati per orientare la sua preferenza, anche nel consenso politico?
È un aspetto che valuto come estremamente pericoloso. Il quadro di progressiva espropriazione delle proprietà tipiche dell’uomo è sottopo- sto alla volontà di alcune “centrali” che come punto di caduta hanno la forza militare. Possono esistere algoritmi capaci di manipolare la volontà degli uomini. Ma questo rimane l’aspetto per così dire di superficie. Al fondo c’è la volontà di potenza, di soggiogamento di un popolo sull’altro. Anche attraverso il conflitto armato.
L’espressione “democrazia digitale”, la rivendicazione da parte di alcune forze politiche dell’uso della Rete per accrescere le possibilità dei cittadini di esprimere la propria volontà, la convince?
Democrazia è un termine che ha molti significati. Quello più diffuso attiene ad un governo non più appannaggio di un Signore - re, imperatore, dittatore e quant’altro- bensì espressione della volontà popolare. Della volontà di tutti. Più volte ha usato l’espressione “tragedia della democrazia”. Perché? Nel ’ 600 il termine “tragico” viene considerato come espressivo di ciò che si deve fare ma che al tempo stesso è impossibile fare. E’ esattamente il caso della democrazia. In linea di principio, infatti, democrazia significa volontà di tutti. Ma lei pensi alla realtà di sette- otto miliardi di persone quanti siamo oggi sulla Terra. In che modo questa moltitudine può esprimere e manifestare la volontà generale, appunto “di tutti”? Teoricamente è necessario; in pratica è impossibile. Ovviamente nel corso delle epoche sono stati individuati degli aggiustamenti: i Parlamenti, i corpi intermedi, la democrazia indiretta. Ossia mettere in campo una serie di procedure che possano svolgere una mediazione tra il tutto e il nulla.
Professore, ma è proprio la Rete con la sua estensione infinita che dovrebbe rappresentare la soluzione. La convince?
Già: ma siamo sempre lì. Ogni verità ha il suo rovescio. La Rete potrebbe fare nel supporto per superare il contrasto tra il tutto e il nulla di una democrazia ideale. Tuttavia l’esperienza degli ultimi secoli ci parla di Stati che si sono venuti formando come non più dipendenti da un Sovrano, da un Presidente autoritario, da imperi bensì su base nazionale, frutto per così dire di etnie. Non nel senso di un dato biologico ma culturale. E’ l’esperienza di procedure sempre più perfezionate per alimentare la dialettica del discorso politico. Che è lo scambio di idee che avviene tra cittadini ognuno dei quali è libero di dire ciò che vuole. Ecco, ma come si fa a decidere sulla base dei tanti che hanno diritto ad esprimersi? Occorre una mediazione. Diventano indispensabili, cioè, delle “palestre mediatrici”.
Insisto. E’ appunto la Rete, secondo alcuni, la vera mediazione digitale che consente a tutti di esprimersi. La più grande forma democratica esistente. Condivide o no?
La comunicazione digitale ha la caratteristica per cui non è possibile fare discorsi complessi. E’ una comunicazione ridotta all’osso: o sì o no; mi piace o non mi piace, like o dislike. Lei immagini l’enorme quantità di decisioni che si debbono prendere in società stratificate e complesse come la nostra. Facciamo sondaggi con base milioni di persone grandissima parte delle quali risponde sì o no senza sapere niente del tema? Il dramma sta qui. E’ una questione che nell’antichità i Greci avevano perfettamente capito: il problema dell’uno e dei molti; i popoli che sono composti da tante persone mentre la decisione è una sola. Oggi assistiamo alla tendenza a semplificare, a ridurre i gradi intermedi per i quali è razionalmente necessario passare dal complesso al semplice.
Professore, in quest’ottica il rapporto con l’Intelligenza Artificiale quale deve essere? Dobbiamo averne paura o possiamo padroneggiarla?
L’Intelligenza Artificiale è uno strumento. Hai voglia a dire: poco a poco ci padroneggerà. In realtà siamo sempre noi a comandare. Certo, esistono dei pericoli. Ho letto che in Cina hanno istituito un gruppo sperimentale di giovani i quali debbono dedicare i propri sforzi a studiare in che modo realizzare meccanismi capaci - e torniamo al punto! - di dirigere una guerra senza bisogno dell’intervento umano. Se avessero successo, i combattenti verrebbero ridotti a puri e semplici “pupi”; automi guidati non dalle scelte fatte da persone responsabili bensì dall’Intelligenza Artificiale.
Professore, ma come possiamo difenderci da simili distopie?
Ecco il punto sul quale mi fermo. L’IA e tutti prodotti e le macchine cibernetiche, sono incapaci di soffrire. Già trent’anni fa dicevo che avrei potuto riconoscere un robot come umano in quanto capace di interloquire con me, pormi delle domande, elaborare delle risposte. Ma un tale robot non potrei mai ritenerlo umano fin quando non avesse la capacità di soffrire. E’ il rapporto che lega, o invece contrappone, la tecnica alla vita. La biologia, per quanto possiamo manipolarla, non è detto non possa riservarci sorprese, non troverà i messi per difendersi da questa volontà di riduzione meccanicistica.
Ma non c’è in questo ragionamento il rischio di un riflesso anti- modernista?
Guardi, anche su questo punto ho sempre detto che è inutile maledire la novità, lamentarsi, dire “come finiremo male”. Semmai il problema è innalzare a livello di massa la formazione mentale delle persone al punto da poter fronteggiare queste novità senza farsene schiacciare. L’umanità è andata avanti per sfide. Ha costruito cannoni, carri armati e poi ha cercato di conviverci. Qui entrano in gioco due grandi funzioni: quella della psicologia e della psicanalisi fatte uscire dagli studi privati, e quella della scuola. Dobbiamo preparare le nuove generazioni alla realtà, non lasciarle abbandonate e far sì che risultino schiacciate dalle novità. E’ la fondamentale responsabilità della politica. Che però mi pare molto lontana dall’assumersela.