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La crisi libica non potrà restare irrisolta a lungo. Le ragioni sono molteplici. L’Africa del Nord è uno snodo decisivo sotto più profili: geopolitico, economico ed energetico, per citarne alcuni.
L’instabilità libica è un problema innanzitutto per i Paesi confinanti, ovvero Egitto e Tunisia. Ma è anche un problema globale. La Libia, infatti, è diventato il laboratorio per gli scenari geopolitici degli anni Venti del ventunesimo secolo. In quella regione si sta giocando un’importante battaglia interna alla guerra civile scoppiata a ridosso della nascita del califfato nero di Bagdad. Schematizzando, abbiamo uno scontro ideologico e militare tra la linea “saudita” e la linea “turco- qatarina”. L’Arabia Saudita punta a una stabilizzazione della regione MENA sotto il patronato di Riad, di cui si rivendica anche l’egemonia sul mondo sunnita, in una fase che, per varie ragioni ( ad esempio, il presunto o vero declino occidentale), appare favorevole a un’espansione culturale e religiosa dell’Islam. I sauditi possono contare sulla fedeltà degli Emirati e l’appoggio dell’Egitto di Al Sisi, ferocemente nemico dell’altro fronte, quello dell’Islam popolare, guidato dalla Turchia di Erdogan, che è diventata la patria di riferimento della Fratellanza musulmana ( duramente repressa in Egitto, appunto). Quest’altro fronte può contare sul Qatar, dove peraltro ha sede il più importante network del mondo islamico, al Jazeera, e ha un buon rapporto con una parte del mondo sciita ( ad esempio gli Hezbollah) e con il regime di Teheran, oltre ad essere popolare nell’Islam d’Occidente, soprattutto tra i giovani. La durezza dello scontro s’è misurata con le reazioni nel mondo islamico ai recenti accordi “Abramo” ( tra parentesi, un successo strepitoso dell’amministrazione Trump, che in questo modo sta portando gli Stati Uniti fuori dal teatro mediterraneo, assicurandosi però interlocutori affidabili e duraturi). Erdogan e Teheran sono stati durissimi, dicendo che in questo modo si sacrificavano i Palestinesi sull’altare dell’accordo tra i Sauditi e Israele. Questa partita ha anche dei risvolti energetici ed economici, ovviamente. La posta in gioco è il controllo sulle rotte e sulle risorse naturali del Mediterraneo: anche in questo caso, Israele, Egitto e Sauditi sono da una parte, in appoggio di un Paese Ue come la Grecia, e la Turchia, con il sostegno di Tripoli, dall’altro. Intorno a questo conflitto intrasunnita, si muovono poi le grandi potenze. La Russia spinge come sempre verso sud ovest, per garantirsi una forte presenza nel Mediterraneo, trovando un alleato nella Francia e un sicuro sostegno nell’Egitto di al Sisi. La Francia a sua volta è interessata a rafforzare la sua posizione nel Sahel, dove peraltro vige un sistema monetario parallelo che fa capo a Parigi. Mentre la Cina continua a coltivare con successo la propria politica espansiva economica in Africa, compreso il Nord Africa, cercando di mantenersi, per quanto possibile, politicamente neutrale ( mentre sta costruendo le infrastrutture, fisiche e virtuali, del Continente e ha persino avviato una propria politica educativa dei giovani africani).
Insomma, sono troppi gli attori internazionali interessati a non far esplodere la situazione libica. Infatti, in questi giorni al Cairo si registrano passi significativi nel dialogo tra le autorità di Tripoli e di Tobruk, in vista della conferenza di Tunisi di novembre, che potrebbe segnare un punto di svolta.
L’Italia, che è il Paese più esposto alle ricadute geopolitiche ed economiche della crisi libica ( i flussi migratori e non solo: il sequestro dei pescatori di Mazara del Vallo è un episodio drammaticamente emblematico) è collocata ai margini di questo passaggio epocale nella storia del Mediterraneo. Ma si noterà soprattutto l’assenza dell’Europa, che, attraverso l’Italia, è essa stessa esposta a quella crisi.
L’Europa però non è uno Stato. Non è neanche una federazione di Stati. Non ha una politica estera e non ha ancora un esercito, anche se si stanno facendo passi avanti in questo senso. Forse questo processo potrebbe essere accelerato dall’evolversi della crisi libica ( così come il covid sta accelerando, pur tra inevitabili complicazioni e resistenze, l’integrazione sul fronte del welfare e della cooperazione in ambito sanitario). L’essere semplici spettatori, in questo caso, significherebbe precludersi, per il futuro, la possibilità di avere un ruolo da protagonisti nell’area mediterranea e rassegnarsi a interloquire, in posizione di debolezza, con i big players di cui sopra ( Turchia, Russia e non solo).
Oggi, all’Università degli Studi internazionali di Roma – Unint cercheremo di fare il punto sulla questione insieme a Marco Minniti, già ministro dell’Interno e massimo esperto dello scenario libico, a Vincenzo Nigro di Repubblica e ai colleghi Giampiero Di Plinio, dell’Università di Chieti- Pescara, e Paolo Passaglia, dell’Università di Pisa. Sarà un’occasione soprattutto per i nostri studenti dei corsi di laurea sulla sicurezza per toccare con mano un tema che riguarda il futuro dell’Europa, ovvero il loro futuro.