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Quanti si sorprendono rischiano di passare o per ingenui senza pari o per smaliziati super ipocriti. Pietro Grasso che lascia il Pd per diventare alfiere della sinistra radicale o Laura Boldrini che va alla kermesse di Giuliano Pisapia per stabilire che con il Nazareno non è possibile alcun accordo - aggiungendo un «purtroppo» che è tutto e niente - non fanno altro che andare là dove li conduce il cuore. Il fatto che lo facciano portandosi appresso la poltrona che occupano, restando cioè saldamente l’uno presidente del Senato e l’altra della Camera, può indispettire solo chi si compiace di tirar giù la saracinesca della memoria. E’ dal 1994, infatti, cioè da quando la Prima repubblica scolorì nella Seconda, che le cariche istituzionali da soggetti di garanzia transumarono in figure espressione dei partiti o delle coalizioni che avevavo vinto le elezioni. Fu una interpretazione tutta italiana del maggioritario, che da allora non è stata più rinnegata. E pazienza se così facendo si squilibrava l’assetto dei pesi e contrappesi del sistema: la cultura politica prevalente era un’altra. Non è stata modificata; al più, ha subito dei peggioramenti.Chi dice che in virtù delle loro scelte adesso i presidenti di Camera e Senato non sono più super partes, si impania in un evidente paradosso. Tutto si può infatti sostenere tranne che Grasso e Boldrini si siano improvvisati “ragazzo di sinistra” l’uno o espressione del radicalismo sociale l’altra: lo erano anche prima quando, figli di un equilibrio politico repentinamente tramontato ma che all’epoca trovò solerti laudatores, furono eletti sotto la regia del Pd di rito bersaniano. E così rimangono. Per cui o super partes non sono mai stati oppure non sarà ora che lo diventeranno o che piegheranno le assemblee che guidano alle loro ragioni di parte.Casomai, ad avviso di chi scrive, il problema vero è un altro. Risiede nel mal sottile della delegittimazione del Parlamento che, alla stregua di un torrente mai domato, si insinua dove può e trova espressione ovunque possibile. Che, nelle forme più blasfeme tipo Cinquestelle, assume la forma di un attacco palese e concentrico contro i luoghi e le forme della rappresentanza politica «da aprire come una scatoletta di tonno»; o che, in maniera più light ma non meno insidiosa, ripudia i “politici di professione” e si rivolge ai cosiddetti esponenti della società civile per recuperare stima e apprezzamento presso l’opinione pubblica. Promuovendo fin alle più alte cariche personaggi che fino a quel momento con la politica in senso letterale non avevano avuto a che fare, calcolando così di potersi rifare una verginità agli occhi dei cittadini e, magari, riguadagnare la credibilità e l’autorevolezza perduta.Un abbaglio, più che un errore. Un deleterio strabismo che quasi sempre ha rischiato di produrre effetti contrari ai voluti. Non certo per le persone scelte, tutte di altissimo e indiscutibile valore. Quanto per la spregiudicatezza di chi si imbarca in simili operazioni: sia Berlusconi con Carlo Scognamiglio al vertice di palazzo Madama, sia appunto Bersani in una operazione simile con Grasso. E’ il risultato di una politica che accetta di spogliarsi del suo ruolo quasi si vergognasse di proporre un suo rappresentante per piazzarlo là dove siede in ogni ordinamento con sistema democratico; che abdica in favore di scorciatoie che ammiccano al sentimento di antipolitica che carsicamente alligna nel Paese nel convincimento che così gli italiani mutino i fischi in applausi. Grasso e Boldini sono arrivati al vertice delle rispettive assemblee legislative senza alcuna trafila precedente, subito presidenti senza mai essere stati neanche per un giorno senatori o deputati. Va bene così, ci mancherebbe. A patto però di non lamentarsi se i due finiscono per agire seguendo le loro convinzioni e tralasciando richiami e anatemi che qua e là piovono. In periodi diversi dall’attuale, presumibilmente Grasso sarebbe stato sottoposto ad un pressing molto forte affinché, dopo aver abbandonato il gruppo del Pd, lasciasse anche la presidenza del Senato. La Boldrini forse sarebbe arrivata lo stesso sulla poltrona più importante di Montecitorio o magari al suo posto sarebbe stato eletto un esponente politico con maggiore esperienza e “riconoscibilità”.E’ il presupposto che è fuorviante. La società civile, infatti, non è né meglio né peggio di quella politica: non produce una panacea, né offre una palingenesi. Semplicemente la seconda è specchio della prima, e viceversa. Chi fa politica deve sobbarcarsi l’onere del giudizio popolare; chi vive e opera nella società ha il diritto di incalzare, ma pure il dovere di rispettare, quanti agiscono per delega nelle istituzioni. Giocare agli apprendisti stregoni promuovendo commistioni improprie generalmente produce guasti.