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L’arringa difensiva del processo Mafia Capitale è uscita dall’aula della corte d’Appello di Roma ed è approdata sui Social, dove è diventata nuovo oggetto di scontro tra avvocati e stampa. Da una parte il difensore Cesare Placanica; dall’altra Lirio Abbate, giornalista de L’Espresso, il quale scrive sulla sua pagina Facebook: «Para- difensore dico a te che leggi questo post: di te e dei tuoi amici criminali che ti pagano, non ho paura» e ancora «Il fango che tu e i tuoi amici mafiosi volete spargere sulla mia correttezza professionale vi si ritorcerà sommergendovi».
Avvocato, partiamo dai fatti. Che cosa ha detto per scatenare questa reazione?
Nel pieno esercizio della mia funzione di difesa tecnica nel processo, ho ritenuto necessario rappresentare alla Corte che la Procura di Roma è stata bravissima in questi anni a tentare di condizionare l’organo giudicante, creando una cappa anche mediatica intorno al processo, cavalcando le tesi senza alcun riscontro sostenute da certa stampa militante dell’antimafia.
A quale tesi si riferisce?
Mutuandolo da una pubblicazione di Lirio Abbate sul furto ad un caveaux commesso da Carminati, la Procura ha sempre sostenuto nelle sue requisitorie che l’imputato si sia guadagnato l’impunità successiva negli altri processi perché in possesso di documenti contenuti in una cassetta di sicurezza. Che i pm lo dicano è un fatto grave, perché il furto di questi documenti è un fatto che processualmente non è vero, ed è ancora più grave sostenere che in queste fantomatiche carte ci fossero nomi di magistrati, che Carminati poteva così ricattare per farsi assolvere dall’imputazione di mafia. Si tratta di fatti che, se veri, devono essere oggetto di un processo. Se invece vengono usati strumentalmente dall’accusa, diventano un modo per ricattare l’organo giudicante attraverso mistificazioni.
La sua argomentazione, dunque, quale è stata?
Io ho detto che sono basito dal fatto che la Procura di Roma, un’eccellenza in Italia, ricorra a questi mezzi. Ho aggiunto che questi sotterfugi an- drebbero lasciati a certa stampa cialtrona e militante, che mostra tutta la sua debolezza di cane da guardia quando invece altre notizie le censura.
E quali notizie sarebbero state censurate?
Mi sto occupando del processo Montante e non ho detto nulla di non già noto. Tra quelle carte esistono dei passaggi, resi pubblici su internet, in cui si parla del coinvolgimento proprio di questi censori della stampa, di cui io però nella mia arringa non cito i nomi. Ho detto che, guarda caso, i loro giornali di questi fatti non hanno dato conto. Da garantista, sono contento che la gente non venga beceramente buttata in pasto all’opinione pubblica, ma sarebbe opportuno che questo atteggiamento si estendesse a tutti.
Lei si riferisce al fatto che nell’inchiesta Montante compare anche il nome di Lirio Abbate. Perchè ha utilizzato questo argomento in un diverso processo?
Con una motivazione endoprocessuale: mi serviva per sostenere come in “mafia Capitale” si è creato intorno ai giudici un clima che li potrebbe condizionare e, come difensore, mi sono sentito il dovere di farlo presente. Ho voluto chiedere ai giudici di essere coraggiosi e di non prendere per buona una verità mediatica stabilita nei modi che ho descritto e confezionata prima ancora di iniziare il processo, grazie all’abile tentativo di condizionamento esercitato dalla Procura.
Lirio Abbate le ha quindi indirizzato quel messaggio su Facebook. Lei come reagisce?
Da “paradifensore” e “amico dei criminali”, come lui mi definisce con fare da bulletto, gli do un consiglio: mi quereli, così accertiamo la veridicità dei fatti che ho esposto nell’arringa.
Abbate le si rivolge con la locuzione «te e i tuoi amici criminali che ti pagano», assimilandola ai suoi assistiti.
È una considerazione che svilisce chi la pensa, non chi esercita la funzione della difesa. Assimilare avvocati e assistiti è da analfabeti non di diritto, ma di funzionamento della democrazia: chiunque abbia un minimo di buonsenso percepisce quanto sia una considerazione priva di fondamento. Purtroppo, si tratta del classico meccanismo utilizzato per inficiare la qualità tecnica della difesa, che invece è libera da condizionamenti e prescinde da qualsiasi rapporto, financo da quello con il proprio assistito.
Non pensa che le sue considerazioni possano in qualche modo minare alla libertà di espressione del giornalista?
La libertà di informazione è essenziale per lo stato di diritto al pari della libertà di difesa. Ma anche la libertà di criticare l’informazione e di criticare la difesa lo sono: non esistono santuari intoccabili. Oppure solo il professionista della stampa dell’antimafia può muovere critiche? La libertà di critica vale per tutti, purché la critica sia ancorata ai fatti. Io, in qualità di difensore di un imputato, ho parlato di fatti specifici e ho denunciato quello che secondo me poteva essere un vulnus alla libertà del giudice.
Quindi lei nella sua arringa a criticato la stampa? Io difendo la libertà di stampa, ma credo anche che la stampa non debba prendere parte ad un processo. I giornalisti devono fare la cronaca e raccontarlo, ma non hanno la funzione di sponda di una delle due parti, che si tratti dell’accusa o della difesa.
Nelle sue parole, però, ci sono accuse anche alla Procura.
In questo processo, la Procura si sta comportando da avvocato d’accusa, eliminando così l’ipocrisia di una sua posizione neutra. Il clima extraprocessuale è stato inquinato in molti modi: il legame tra media e Procura è solo uno. A questo posso aggiungere il fatto che il Procuratore Generale, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, ha trattato argomenti specifici di questo processo: in aula può dire ciò che ritiene, ma non all’inaugurazione. Anche stabilire che 17 imputati debbano partecipare in videoconferenza anche se incensurati e senza carichi pendenti è un modo di esercitare pressione. Ecco, io credo che tutto questo possa condizionare l’organo giudicante e l’ho fatto presente al collegio.