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Di Maio l'ha spuntata. La quarta e ultima lettura della riforma costituzionale che porterà al taglio drastico del numero dei parlamentari è in testa all'agenda politica. Sarà votata il 7 ottobre alla Camera e da quel momento non ci saranno più ostacoli. Se anche qualcuno si azzardasse a proporre il referendum confermativo sarebbe infatti sconfitto, essendo la crociata contro i politici diventata ormai un luogo comune quasi universalmente condiviso nel nostro Paese.
Il capogruppo del Pd alla Camera Delrio ha spiegato la scelta del suo partito con la necessità di onorare un patto e con l'accordo sull'aggiunta di alcuni ' contrappesi' che dovrebbero compensare gli squilibri indotti dal taglio dei parlamentari. In effetti rinviare l'approvazione definitiva della riforma sarebbe stato impossibile per il Pd senza mettere automaticamente a rischio di prematura scomparso il governo appena nato. Ma il discorso non vale per la scelta del Pd di votare a favore della riforma, dopo averla bocciata nelle tre letture precedenti, criticandola con toni fiammeggianti.
I ' contrappesi' a cui allude il costituzionalista di punta del Pd Stefano Ceccanti sono infatti, tutti tranne uno, alibi inconsistenti. Si tratta infatti dell'adeguamento dei regolamenti parlamentari: un passo non solo ovvio ma anche obbligato a fronte di una radicale modifica della composizione delle Camere come quella introdotta dal taglio dei parlamentari.
In secondo luogo il Pd chiede «una riforma integrativa che affronti alcune questioni di garanzia e di equilibrio costituzionale». Anche sorvolando sul particolare per cui le «questioni di garanzia» saranno risolte solo in un secondo tempo, essendo necessario seguire il lungo iter delle riforme costituzionali, la tonitruante formula nasconde contenuti modesti. In particolare si tratterà di rivedere il rapporto tra parlamentari ed esponenti degli enti locali nell'elezione del capo dello Stato. Revisione necessaria perché va da sé che qualora il numero dei parlamentari diminuisse e quello degli enti locali restasse invariato il rapporto risulterebbe fortemente squilibrato.
Il discorso è diverso per la terza ' clausola di garanzia': una legge elettorale nuova, capace di evitare l'innalzamento vertiginoso e automatico della soglia di sbarramento, che al Senato diventerebbe proibitivo e di fatto lederebbe gravemente il diritto alla rappresentanza. La riforma elettorale è in effetti il vero correttivo concordato nelle riunioni preparatorie della nuova maggioranza nell'agosto scorso e sarebbe davvero efficace.
Solo che per garantirne l'efficacia la nuova legge dovrebbe essere varata contestualmente alla riforma, o subito dopo. In caso contrario infatti il rischio di arrivare alle elezioni politiche con la Carta già modificata ma senza ancora aver messo mano alla legge elettorale diventerebbe, ed effettivamente diventerà a partire dal 7 ottobre, fortissimo. I partiti della maggioranza ne sono pienamente consapevoli, ma ritengono che rivedere subito la legge elettorale sarebbe troppo rischioso. Una volta incassato un sistema elettorale proporzionale, sia l'M5S che, soprattutto, Renzi, vedrebbero scemare vertiginosamente le ragioni per tenere in vita questo governo.
La legge elettorale sarà dunque cambiata solo a fine legislatura e se nel frattempo la medesima dovesse essere sciolta anzitempo si voterà con la stessa legge ma con il Parlamento già sfoltito. I già vistosi e peraltro universalmente denunciati limiti del ' Rosatellum' ne uscirebbero moltiplicati.
Ma questa non è la sola ombra che grava sula voce ' legge elettorale'. L'accordo sul proporzionale era stato raggiunto nell'ultima riunione preparatoria della nuova maggioranza, con la formula del ' patto tra gentiluomini'. I quali però in politica scarseggiano. Il Pd non intende affatto accettare il ritorno secco al proporzionale. Lavora su due modelli: il proporzionale appunto, ma con soglia di sbarramento molto alta, oppure il maggioritario a doppio turno, eterno miraggio del Pds- Ds- Pd.
L'accordo sul proporzionale, insomma, non solo non sarà rapido. Non sarà neppure facilmente raggiungibile.
Di fatto, la scelta del Pd di votare una riforma già bocciata tre volte risponde a un solo criterio: difendere l'alleanza con l'M5S a tutti i costi. In parte è un criterio fisso nelle alleanze tra forze politiche diverse. Inevitabile piegarsi a più o meno amari compromessi per evitare lo sfaldamento delle maggioranze composite. In questo caso non si tratta però di leggi normali ma della Costituzione. Vuol dire trasformare il pilastro della Repubblica in merce di scambio. Votare, appigliandosi ad alibi risibili, quel che si era già bocciato per tre volte per difendere un'alleanza politica, insomma, finirà per delegittimare la Costituzione ben più di mille comizi.