«Posso?».

«Prego».

«La sinistra – come un po’ tutti a dire il vero – è alla prova: deve fare una scelta di lungo periodo; strategica, si sarebbe detto una volta. Da una parte c’è la strada che io chiamo socialista- statalista, alla base della ventilata intesa tra la attuale maggioranza del Pd e una larga fetta dei Cinquestelle; e c’è l’altra, ben diversa, che definisco liberal- socialista. È bene che il confronto emerga alla luce del sole, senza ritrosie. Ognuno deve battersi con la propria fisionomia e sostenere esplicitamente le proprie ragioni e i propri obiettivi. Ne trarrebbe vantaggio non solo la sinistra ma il Paese intero».

Claudio Petruccioli, storico dirigente del Pci e del Pds, ex presidente della Rai; una delle, diciamo così, non moltissime anime pensanti del panorama politico, entra con i piedi nel piatto della stagione politica destinata a concludersi con l’elezione del successore di Mattarella. Le conclusioni del ragionamento sono sorprendenti.

Scusi, ma dire: un po’ tutti, è un modo per sviare il problema?

«Preciso. Con sinistra intendo prima di tutto le forze che, attraverso itinerari anche contrastanti, provengono dalle diverse tradizioni che si richiamano al socialismo; perché questo è il campo nel quale da sempre mi aggiro. Ma sono convinto che la prova che ho indicato investe tutte le forze del riformismo, qualunque ne sia la ascendenza storica o l’ispirazione ideale; tutti coloro, cioè che perseguono la crescita del benessere e delle libertà insieme alla giustizia sociale, alla esaltazione della creatività delle persone, al rispetto della dignità e dei diritti di tutti. Che io ricordi, mai come oggi questo campo è stato preda di smarrimento.

Da anni - dal Bersani dello streaming nel 2013, fino a Bettini e Zingaretti oggi – in questo campo l’orizzonte politico è dominato dall’idea di costruire un rapporto più o meno organico con l’M5S cui affidare il futuro se non della ‘ sinistra’ di quello che si chiama ‘ centrosinistra’ ( capriole verbali!)».

E a lei tutto questo non piace?

«Già all'indomani delle ultime elezioni mi ritrovai a polemizzare con il direttore de Il Mulino, Mario Ricciardi, secondo cui i Cinquestelle erano come una scatola di Lego e ognuno, da Salvini al Pd, poteva manipolarne i pezzi per costruire ciò che più gli piaceva».

Ebbene? Insisto: cos'è che non le piace?

«Non mi piace l'oscuramento dei contenuti, delle idee. Si occulta, così, proprio la specificità di ciò che io chiamo lo statal- socialismo, secondo cui l'azione della sinistra non può che far leva sullo Stato il quale ammassa le risorse ( quando non si fantastica che possa crearle dal nulla per volontà politica) e poi le distribuisce. Senza far diventare i Cinquestelle dei socialisti a loro insaputa, è palese che il patto che viene perseguito con loro non può avere altro che questa impronta.

Così sparisce, viene archiviata senza istruttoria l’altra diversa prospettiva, che io definisco liberal- socialista. Statalsocialismo conto liberalsocialismo: questa la partita da giocare».

Perché non prova a chiarire meglio lo statal- socialismo? Non è forse giusto che in una fase così difficile lo Stato si faccia carico di aiutare chi sta peggio?

«Non solo è giusto, è indispensabile. Ma, come Mario Draghi ha scritto in un noto articolo del marzo scorso sul Financial Times, il punto non è se lo Stato interviene, ma come interviene. Compito della sinistra oggi e per il futuro non è di estendere una generica protezione statale ma di orientare l'azione, sussidiaria e stimolatrice, dello Stato, facendo leva sulle necessità e gli interessi delle persone e dei gruppi per mobilitare le risorse sociali. La crescita si fa solo così. Lo statal- socialismo oggi produce tutele statiche che ottundono anziché stimolare. Il liberal- socialismo dice, al contrario: io vi aiuto di fronte al bisogno affinché voi possiate mettere a frutto i vostri talenti, con vantaggio per voi e per la società tutta; lo Stato ti aiuterà quando ne hai bisogno ma la parte socialista della mia azione è far in modo che tu possa essere padrone della tua vita».

E così si precipita nel liberismo più puro: datti da fare altrimenti sei perduto...

«Le invettive ideologiche contro il neoliberismo servono solo a nascondere il vuoto in cui si trova una parte della sinistra incapace di pensare ad altro che non sia la riedizione del “compromesso socialdemocratico”. Felice compromesso, che ha dato moltissimo, che ha prodotto - in un prolungato periodo di grande crescita economica e vitalità sociale – il welfare europeo, modello di sicurezza e protezione sociale. Le premesse che lo resero possibile non ci sono più; e oggi, anche per difenderne le conquiste c’è bisogno di un approccio che mobiliti e accresca le risorse della società, delle persone, degli interessi. Eccola la differenza fra statalsocialismo e liberalsocialismo. E’ esattamente lo statalismo di stampo novecentesco a non reggere più. E’ comprensibile che la nostalgia del compromesso socialdemocratico del secolo scorso sia forte. Anche persone che hanno alle spalle l’esperienza del Psi, persone che stimo come Intini, Martelli e altri, da qualche tempo attribuiscono le difficoltà della sinistra a una subalternità verso il neoliberismo. Io sono invece convinto che pesi l’incapacità di tradurre la visione liberalsocialista in azioni genuinamente riformiste. Si parla tanto dell’ascensore sociale che si è bloccato. Ma l’ascensore – come dice l’aggettivo – lo costruisce e lo attiva solo la società, una società aperta e dinamica. Lo Stato può al massimo curane la manutenzione, lubrificarlo. Se la società non fornisce più l’energia a quell’ascensore, lo Stato può offrire solo pubbliche assistenze, mense gratuite. L’ascensore resta fermo».

E il Pd com'è: social- statalista o liberalsocialista?

«Nel Pd convivono entrambe le anime. Il segretario Zingaretti, la sua maggioranza, i suoi ispiratori perseguono la convergenza strategica con i 5S nella speranza di vincere così la competizione con la destra. L’unico cemento che può sostenere, anche sul terreno elettorale, questa compenetrazione è lo statal- socialismo Se questa prospettiva si afferma, sarà una lunga eclisse per il liberalsocialismo, per un riformismo dinamico legato a una concezione aperta della politica, dell'economia, della società. Su queste due prospettive, ripeto antitetiche, si deve sviluppare un confronto vero e il dibattito non può essere ingessato in un partito che non riconosce il problema e guarda in altra direzione».

Insomma lei sta preconizzando un’ulteriore scissione nel Pd. Giusto?

«Nella mia vita non ho mai fatto né auspicato scissioni, ho sempre lavorato per unire, non per dividere; ma non mi sono sottratto alla lotta politica e culturale quando era inevitabile, imposta dai fatti e dalla realtà. Fino a poco fa pensavo che il Pd era il terreno elettivo per una sinistra liberalsocialista e di governo, adesso non penso più così; il Pd come tale, mi sembra oggi politicamente sterile, privo di capacità propulsiva. Penso che le forze liberalsocialiste debbano produrre una loro forte iniziativa. Quelle interne al Pd devono uscire dalla timidezza burocratica che spesso somiglia ad un letargo politico, contrastando quella specie di simbiosi fra Pd e M5S da cui dovrebbe nascere addirittura la sinistra del XXI secolo! E devono, anche, rivolgere un severo richiamo alle varie forze a loro simili che sono fuori del Pd, disperse in scaglie personalistiche. Mi riferisco – è facile capirlo – ai raggruppamenti di Renzi, Calenda, Emma Bonino che insieme potrebbero raccogliere un consenso non trascurabile, ma il più delle volte imitano i manzoniani polli di Renzo. Il primo segnale di consapevolezza dovrebbe essere la ricerca della collaborazione, di convergenze unificanti fra tutti i liberalsocialisti e affini, dentro e fuori il Pd. Stando ai programmi concreti non sembra affatto difficile. Ad esempio, ci vuole tanto a fare una battaglia comune, ad alta voce e fino in fondo per eliminare quota cento o la vergogna dei navigator?».

Serve una nuova legge elettorale?

«Penso che quello attuale non è un momento che si possa affrontare con i ritmi della continuità, per quanto sapiente; è uno di quei momenti ( rari, io ne ho attraversato solo un altro) in cui è necessario pensare e osare la discontinuità. Se si va alle elezioni con l’offerta politica che conosciamo oggi, l’esito non sarà a somma zero, nel senso che quel che perde uno lo guadagna l’altro. No, l’esito sarà – ampiamente – sotto lo zero; chiunque vincerà ( questa destra, come è probabile; o – non ci credo – l’asse Bettini- Grillo) a rimetterci sarà l’Italia, tutti gli italiani.

Non riesco a immaginare con quale legge si voterà; vedo dispute penose intorno alla soglia di sbarramento, segni di una deriva subalterna e fallimentare. Né so cosa può accadere di qui al momento in cui si voterà. Vedo, però, che i soggetti in campo ( partiti, per così dire, e possibili alleanze) sono precari, poco motivati e ancor meno prevedibili. Non so se prenderanno corpo nuove offerte politiche. Per il buon funzionamento della democrazia c’è da augurarsi che alle domande dei cittadini possano corrispondere offerte precise. Di una cosa sono convinto: che la offerta del riformismo liberalsocialista debba superare la dispersione, la timidezza, la afasia attuali per presentarsi nel modo più esplicito e forte.

Qualche giorno fa su Repubblica ho letto un bellissimo articolo di Luciano Violante: il punto – dice - non è il sistema elettorale ma il fatto che l'Italia è in un “pantano decisionale. Dobbiamo uscirne per costruire un sistema capace di decidere”. E’ questa la chiave di tutto, la forte spina dorsale che il riformismo liberalsocialista deve dare all’Italia».