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Per quanto non al livello di alcuni Paesi occidentali, l’Italia può rivendicare a giusto titolo una più che onorevole politica estera, grazie ad una classe diplomatica di primissimo ordine, ammirata in tutto il mondo per capacità specifica, cultura, difesa degli interessi nazionali e disponibilità alla mediazione. Soprattutto nel bacino mediterraneo ha riscosso l’unanime apprezzamento. E con il turbolento mondo arabo- islamico, non meno che con quello israeliano, ha saputo intessere rapporti tali da suscitare in molte occasioni il plauso delle cancellerie non proprio incline a riconoscere ad una nazione occidentale il ruolo pacificatore che riteneva di dover svolgere.
Fedele alle alleanze, l’Italia non ha mancato di far sentire le sue ragioni e quelle dell’Europa in frangenti difficili della storia recente: l’affaire di Sigonella resta l’esempio più eloquente della rivendicazione della sovranità nazionale a fronte di una potenza che avrebbe voluto usare l’arma dell’ingerenza per asseverare il suo primato. Per di più ha coltivato, come ha potuto, una più che soddisfacente politica volta al dialogo tra le civiltà anche a livello di quella che venne definita da Luciano Violante “diplomazia parlamentare” in perfetta sintonia con la Farnesina, indipendentemente dal colore dei governi. Ed è stata una delle più tenaci nazioni a ritenere l’Unione per il Mediterraneo una possibilità di sviluppo e di pace purtroppo abbandonata da chi pure l’aveva rilanciata, vale a dire Nicolas Sarkozy. Il ricordo di tutto ciò ( e molto altro ancora sarebbe da menzionare, a cominciare dalla “Pentagonale” inventata da De Michelis che proiettava l’Italia verso l’est, prematuramente se si vuole, ma genialmente considerando ciò che sarebbe accaduto dopo il 1989) ci pone in una situazione di disagio guardando alla subalternità del nostro Paese che pur ha espresso negli ultimi decenni un presidente della Commissione europea e un Governatore della Bce.
Avremmo avuto la possibilità di sviluppare la nostra vocazione naturale verso l’Africa ed il Medio Oriente, ma la miopia politica dei governi attenti più ai collegi elettorali che agli interessi generali, lo ha impedito. Così come si sono disinteressati dell’espansione della cultura, della lingua e dell’identità italiana nel mondo trascurando gli Istituti di cultura per i quali Paesi come la Spagna, la Gran Bretagna, la Francia, gli Stati Uniti ed il Giappone investono ingenti risorse. Una ventina d’anni fa apprendemmo dall’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che le ambasciate italiane avrebbero dovuto avere come primaria missione la promozione del Made in Italy. Insomma, si sarebbero dovute trasformare in agenzie commerciali e turistiche soppiantando magari un istituto che già svolgeva tale compito con successo: l’Ice, l’Istituto nazionale per il commercio estero.
La politica estera negli ultimi anni è stata tutt’altro che brillante. Sorvoliamo sulle gaffe di qualche ministro, con conseguenze giudiziarie rilevanti, ma non possiamo sottacere che nell’ultimo anno le nostre quotazioni si sono assottigliate. Il fatto stesso che le relazioni internazionali siano state ondivaghe come non mai la dice lunga sulla considerazione in cui è stata tenuta la politica estera, al punto che solo ieri l’Italia ha indicato il proprio rappresentante nella Commissione europea. E mentre tutti gli altri Parlamenti si accaparrano le posizioni più rilevanti negli organismi rappresentativi internazionali ( Osce, Consiglio d’Europa, Assemblea parlamentare- Unione per il Mediterraneo, Assemblea Nato, ecc.) noi partecipiamo con più o meno distrattamente alle riunioni plenarie e delle commissioni: insomma, c’importa poco.
In tale contesto non fuga le perplessità - ma speriamo di sbagliarci - la nomina a ministro degli Esteri dell’onorevole Luigi Di Maio. E non perché nutriamo pregiudizi nei suoi confronti, ma per i precedenti che ne illustrano le competenze.
Il suo attivismo per raggiungere un accordo oneroso, e non sappiamo ancora quanto soddisfacente con la Cina, denominato “Nuova Via della Seta”, che ha suscitato l’opposizione di mezza Europa e l’ostilità degli Stati Uniti, è stato osteggiato perfino nello stesso governo a riprova che un’operazione del genere non può essere utilizzata a fini più propagandistici che economici implicando oltretutto aspetti di quel nuovo ordine mondiale verso il quale occorrerebbe una maggiore attenzione se non si vuol essere colonizzati dai nuovi padroni della Terra, il ristretto club del quale Pechino fa parte. Per di più Di Maio ha aperto al 5G e a Huawei sempre in chiave filo- cinese, mentre si è schierato - pur proclamandosi fedele alle alleanze tradizionali - in favore di Maduro rifiutandosi di riconoscere il presidente provvisorio Guaidò nella guerra civile venezuelana. Non esattamente un esempio di coerenza. Insomma, l’Italia che sarà rappresentata da Di Maio, con chi starà? Inoltre, le sue non nascoste simpatie per la Federazione Russa e per l’Iran ( non sappiamo se confermate) gettano una luce sinistra sui rapporti con l’Unione europea e con gli Stati Uniti. Insomma, una gran confusione.
Come confuso resta ( perché mai chiarito) l’atteggiamento del nuovo capo della Farnesina sull’Europa ( alleato di Farage e inviso all’Alde) e sull’uscita dall’euro ( un tempo asset battagliero dei grillini). Nessuna meraviglia, si dirà.
Ricordiamo precedenti che dovrebbero far riflettere. Nel settembre 2016, polemizzando con Matteo Renzi, dalla posizione di vice- presidente della Camera, paragonò il leader del Pd ad Augusto Pinochet, “dittatore del Venezuela” scrisse, salvo correggersi, ma la frittata era fatta. Nel novembre 2018 fece questa dichiarazione: “Noi non siamo una forza isolazionista. Siamo un Paese alleato degli Stati Uniti, ma interlocutore dell’Occidente con tanti Paesi del Mediterraneo come la Russia”. Senza commento. E ancora in quel disgraziato novembre, nel corso di una missione a Shanghai, riferendosi al presidente Xi Jinping, per ben due volte, in due distinte occasioni pubbliche, lo chiamò Ping: un altro nome, insomma.
Lo scorso anno, in febbraio, Di Maio, insieme con il suo socio Dibba, creò il più grave incidente diplomatico con la Francia, dopo la dichiarazione di guerra del 1940. Si recò a Parigi, incurante di essere vice- presidente del Consiglio, dove incontrò una delegazione degli esponenti più aggressivi e facinorosi dei gilet gialli, acerrimi nemici del presidente Macron, per stringere un’intesa in vista delle elezioni europee. Si scatenò il finimondo politico e diplomatico. Il capo politico M5S rivendicò la sua appartenenza ad un movimento legittimato a fare quel che voleva. Ma nel contempo scrisse una letterina a Le Monde per chiarire ed in qualche modo scusarsi. Non l’avesse mai fatto. Nella missiva definì la Francia un Paese “dalla tradizione democratica millenaria”. Evidentemente non aveva mai sentito parlare del 14 luglio 1789...
Forse si ha il diritto di avere perplessità se la politica estera italiana è in simili mani.