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C’ è del surreale nella pressione- urgenza con la quale il partito democratico sta chiedendo di discutere in Parlamento la modifica della legge sulla cittadinanza. Surreale non tanto per i contenuti della proposta che, seppur non condivisibile, merita comunque di essere valutata nel dettaglio, quanto piuttosto per la tempistica con cui viene avanzata. Nel mezzo di una complicatissima approvazione della legge di bilancio e, soprattutto, con la drammatica emergenza Ilva, ci si chiede se la divisiva proposta di introdurre in Italia lo ius soli e lo ius culturae non sia stata spinta oltre ogni ragionevole limite. Nel merito essa si pone un obiettivo che è pure condivisibile: sanare la situazione di persone, specialmente giovani, nati e cresciuti in Itala, cittadini di fatto ma non di diritto. Insopportabili però gli slogans con i quali viene presentata ( la “battaglia di civiltà”). Come se, nel nostro Paese, sullo ius soli si partisse da zero. Come se non esistesse la legge del 1992, la quale consente - è bene ribadirlo - allo straniero nato in Italia, e che qui abbia risieduto legalmente senza interruzione fino alla maggiore età, di divenire cittadino al raggiungimento di quest’ultima, presentando richiesta. Dimenticando anche ( non a caso?) che l’Italia non è un Paese ingeneroso in punto di conferimento di cittadinanza: i dati Istat parlano, infatti, di 200.000 nuovi italiani solo nel 2016. Dimenticando, infine, che la cittadinanza non è un diritto.
Ma aldilà di ciò, sono proprio i contenuti della proposta a non convincere, anche considerando le esperienze di altri Paesi, rispetto alle quali lo ius soli, modello- italiano, è stato costruito a maglie più larghe. Da noi, infatti, acquisterebbe la cittadinanza italiana chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, di cui almeno uno sia titolare del diritto di soggiorno permanente ( per gli stranieri UE), o in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo ( per gli stranieri extra UE). In entrambe le fattispecie il requisito temporale per il permesso è il soggiorno per cinque anni sul territorio italiano. In tal caso la cittadinanza verrebbe acquisita dal minore, entro il compimento della maggiore età, in modo sostanzialmente automatico. Sarebbe, infatti, sufficiente la dichiarazione di volontà espressa da un genitore all'ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore. Esclusi gli Stati Uniti, in Europa lo jus soli o non è contemplato ( come in Svizzera); o dove esisteva in forma pura ( come in Irlanda) è stato sottoposto nel tempo a restrizioni; oppure vige ma in una forma temperata come nel Regno Unito, in Francia, in Olanda, in Germania. Nel Regno Unito, ad esempio, i figli di stranieri nati nel Paese acquisiscono la cittadinanza, ma i genitori devono essere titolari di un permesso di soggiorno permanente od essere residenti da 10 anni. In Francia la semplice nascita nel territorio nazionale non rileva ai fini dell’attribuzione della cittadinanza. Ogni bambino ivi nato da genitori stranieri acquisisce la cittadinanza francese al momento della maggiore età se, a quella data, ha la propria residenza in Francia o vi ha avuto la propria residenza abituale durante un periodo, continuo o discontinuo, di almeno 5 anni, dall’età di 11 anni in poi. Non proprio un automatismo. La seconda fattispecie, a dir poco vaga, è quella dello ius culturae: acquisterebbe la cittadinanza italiana il minore straniero, nato in Italia ( o che vi abbia fatto ingresso entro i 12 anni di età), che abbia frequentato, per almeno cinque anni, uno o più cicli di istruzione o percorsi di formazione professionale ( triennali o quadriennali) idonei al conseguimento di una qualifica professionale. Anche in tal caso, la cittadinanza si acquisterebbe mediante dichiarazione di volontà espressa da un genitore legalmente residente in Italia all'ufficiale dello stato civile del Comune di residenza del minore, entro il compimento della maggiore età dell'interessato. Ma quali sarebbero i contenuti, appunto culturali, dello ius culturae? Quali sarebbero gli strumenti per verificare la regolare frequenza a cicli scolastici ( aldilà del corso di istruzione primaria per il quale è necessario la sua conclusione positiva)? Come accertare la reale integrazione dei giovani stranieri attraverso il sistema di istruzione? Quali parametri per valutare le competenze linguistiche?
Ma, soprattutto, ci poniamo l’interrogativo della “legittimazione politica” ad affrontare una questione di tale delicatezza da parte di una forza che si trova sì al Governo, ma quantomeno, ad oggi, è minoranza nel Paese. Per una riforma di tale portata, anche per l’impatto che potrebbe avere - si parla di oltre 800 mila potenziali nuovi beneficiari della cittadinanza e di una futura naturalizzazione di quasi 60 mila nuovi italiani ogni anno - sembrerebbe infatti più che mai necessaria una chiara investitura da parte degli elettori. Che si potrà accertare solo al momento del voto. Dunque, non ora e non così. Non in questa legislatura un po’ sui generis, non quando lo scollamento tra Paese “legale” e Paese “reale” è tanto marcato. E’ buon senso.