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Archiviata - parzialmente - la concitata fase della trattativa sulla riforma della giustizia penale, che dovrebbe portare a una riduzione del 25% dei tempi dei processi, è possibile, forse, superando le logiche di schieramento e di posizionamento, avviare qualche pacata riflessione. Va del resto considerato che è concluso soltanto il primo tempo della partita, visto che dovremmo attendere l’esito del Senato. Inoltre, quanto agli effetti della riforma, essi sono cadenzati al momento al 2022-2023 per l’attuazione della delega e al 2024-2025 per quanto attiene la prima possibile decisione di improcedibilità. Fatte queste premesse, in primo luogo non può non segnalarsi che si sono determinate alcune slabbrature istituzionali: rapporti con il Csm, considerato che, mentre l’organo costituzionalmente legittimato sul tema del funzionamento della giurisdizione stava esprimendo un parere, il governo concludeva le trattative con i partiti; sede e modalità della elaborazione della riforma - da via Arenula a Palazzo Chigi; attendibilità del perseguimento degli obiettivi europei - date le criticità espresse da più fronti e una lunga attesa per i risultati. Il tema di maggior rilievo tuttavia, in secondo luogo, è costituito dai contenuti della riforma, da un punto di vista comparativo (Bonafede, Lattanzi, Cartabia), e sostanziale. Sotto il primo profilo è certo che il risultato finale, se messo a confronto con l’originario impianto dell’AC 2435, evidenzi sensibili miglioramenti in punto di garanzia. Tuttavia va onestamente affermato che già all’esito delle audizioni della commissione Giustizia e degli emendamenti proposti dai componenti della stessa, la proposta del relatore Vazio avrebbe superato alcune delle criticità del testo originario. È invece improponibile il confronto tra l’elaborato della commissione Lattanzi e l’esito finale della riforma passata alla Camera, sia per l’organicità dell’impianto, sia per i risvolti sistematici, sia per la capacità di analisi e rielaborazione. Quali che siano state le ragioni, di non difficile individuazione, il prodotto riformatore, al di là della confermata novità del sistema sanzionatorio, appare debole e soprattutto difetta dei più significativi elementi di novità che proprio nella prospettiva europea la proposta Lattanzi aveva suggerito di introdurre (si veda a pagina 51 della Relazione). È indubitabile che l’oggetto delle riforma fosse quello di superare la proposta Bonafede (la legge 3 del 2019) e la formulazione della proposta del deputato di Leu Conte (il “lodo bis” predisposto dal parlamentare). Però la criticità emerge facendo un raffronto tra le soluzioni della commissione Lattanzi e quelle adottate dalla guardasigilli Cartabia nei due Consigli dei ministri. Sul punto emerge un dato sorprendente: la commissione Lattanzi avanzava un ventaglio di proposte sulle quali c’è stato un confronto di opinioni tra i membri della stessa, lasciando aperta la strada della valutazione alla ministra, ritenendole tutte, con varie accentuazioni, praticabili. Tuttavia, leggendo la relazione finale, a pagina 56 emerge quanto segue: «Un’altra soluzione alternativa, pure discussa anche se non accolta come proposta della commissione, limita infine il meccanismo della improcedibilità per decorso dei termini di fase ai soli giudizi di impugnazione». Si tratta della soluzione “Cartabia 1”, che ha poi gemmato in termini peggiorativi la soluzione “Cartabia 2”: regime transitorio, allungamento dei tempi, differenziazione tra le varie imputazioni. Si è creato un sistema che con legge ordinaria, nel tempo, sarà modificato e incrementato, come avvenuto per le altre previsioni “container”. Si impongono due domande: chi ha suggerito questa, peraltro legittima, scelta che era stata sconsigliata? E perché è stata fatta? Viene da chiederselo anche considerato che la presentazione degli emendamenti governativi non risulta essere stata accompagnata dalle ragioni poste a loro fondamento.