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Sull’immigrazione, non è facile parlare il linguaggio della razionalità e della verità. Quanto alla razionalità, è stato efficace il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.
Da vecchio professionista della politica ( capo del governo portoghese e presidente dell’Internazionale Socialista), quando poteva parlare più liberamente, era un formidabile semplificatore. Diceva cose così. Una inchiesta demoscopica ha posto ai cittadini europei tre domande. “Volete vivere in una società di vecchi?”.
Risposta: “No”.
“Programmate di avere più figli?”. Risposta: “No”.
“Volete gli immigrati?”.
Risposta “No”. E’ evidente concludeva Guterres - che tutti e tre i “no” sono impossibili. E ciò vale - si può aggiungere - soprattutto per l’Italia. Dunque, dovremo adattarci almeno in parte a vivere in un Paese di vecchi e, sino a che i figli non si moltiplicheranno, a ricevere gli immigrati.
La razionalità fatica a farsi strada perché il dibattito è dominato da due opposti estremismi. Da un lato chi dice no agli immigrati sempre e comunque.
Dall’altro chi dice un sì incondizionato per ragioni umanitarie. In Italia purtroppo i due opposti estremismi sono alimentati, oltre che dalla ipocrisia, da tradizioni particolarmente radicate: da una parte fascismo e nazionalismo; dall’altra, comunismo e pietismo cattolico.
Come la razionalità, anche la verità è difficile. E per ristabilirla, è utile partire dalle cifre. Non è vero che gli immigrati sono prevalentemente profughi che sfuggono a guerre e persecuzioni: il 90 per cento cerca semplicemente lavoro e una vita migliore. Non è vero che il numero di immigrati è senza precedenti: vive fuori dal Paese dove è nato il 3,5 per cento della popolazione mondiale ( poco più che negli anni ’ 60). Non è vero che si prepara uno tsunami immigratorio di proporzioni apocalittiche: le persone desiderose di emigrare sono in teoria 750 milioni ( su una popolazione mondiale di 7,7 miliardi), ma si tratta evidentemente di un desiderio che il più delle volte è destinato a rimanere tale.
E’ certamente vero invece che l’immigrazione porta ricchezza. Che grazie ad essa il Pil mondiale aumenti lo dicono all’unanimità tutti gli economisti. Divergono soltanto nel calcolare le percentuali, che risultano comunque enormi.
Le ragioni sono facilmente comprensibili anche sulla base del normale buon senso. Arricchiscono gli immigrati stessi, che guadagnano in un Paese moderno sino a quattro volte di più. Arricchisce la comunità di origine, per le loro rimesse ai parenti ( spesso destinate a far studiare i fratellini) e anche perché molti immigrati ritornano dopo aver acquisito risparmi e conoscenze, che usano per aprire in patria nuove attività.
Arricchiscono infine ( e non meno) i Paesi ospitanti. Perché gli immigrati fanno lavori indispensabili ma evitati dai più. Perché sono giovani. Perché creano collegamenti internazionali che favoriscono i commerci.
Perché dalla cucina all’arte, dalla moda allo spettacolo, le società cosmopolite sono più creative. Perché ( almeno nelle economie occidentali più avanzate) gli immigrati portano ingegno, intrapresa e innovazione. Dal 2000 a oggi, ad esempio, due quinti dei vincitori di premi Nobel negli Stati Uniti sono nati all’estero. Nel mondo, la possibilità che essi avviino una intrapresa è due volte più alta che per gli altri; che depositino un brevetto, è tre volte più alta.
La controprova dei vantaggi ottenuti dai Paesi ospitanti è data dalla semplice constatazione che Toronto, Sidney, New York e Londra hanno una percentuale di popolazione immigrata rispettivamente del 44, 45, 38 e 38 per cento. Ma non sono certo le città di minor successo.
Questi ultimi dati già lanciano un campanello d’allarme per l’Italia. Perché da noi gli immigrati sono i peggiori, ovvero i meno istruiti. Nel 2011, ad esempio, in Lombardia, gli immigrati con una laurea erano il 15,9 per cento, contro il 44,5, 36 e 27,6 delle regioni metropolitane rispettivamente di Londra, Parigi e Berlino.
Questo handicap è in parte inevitabile: un padre di famiglia africano che può permetterselo manda il figlio ( che tra l’altro già parla inglese o francese) non certo a Roma. Ma pesa anche l’assoluta mancanza di programmazione e selezione: naturale per chi passa dal razzismo al pietismo ( i due estremismi prima ricordati) senza mai vedere realisticamente e razionalmente l’immigrazione come una opportunità da coltivare secondo l’interesse nazionale. Un interesse che la Merkel aveva perfettamente presente quando nel 2016 ha aperto d’un colpo la porta a 800 mila immigrati siriani: i più scolarizzati e occidentalizzati dell’altra sponda mediterranea.
Queste cifre e questi fatti, in parte tratti da un recente dossier dell’Economist, sono difficilmente contestabili, ma bastano forse a ristabilire razionalità e verità. Non a cambiare l’atteggiamento dell’opinione pubblica che è rimarrà ostile all’immigrazione senza nuove politiche, che seguano il sentimento prevalente e che ancora non si vedono.
Cominciamo dalle esigenze ovvie, che in Italia non sono affatto soddisfatte e che perciò vanno ricordate. Gli elettori possono anche essere convinti ad accettare gli immigrati, ma soltanto quelli utili e voluti. Quindi, il controllo dei confini deve essere totale, come è sempre stato storicamente ( basta pensare a Ellis Island, sotto la Statua della Libertà) e come ancora oggi è ad esempio in Australia ( un Paese tollerante, ma che confina gli immigrati indesiderati nella sperduta isola di Nauru, nel Pacifico).
I cittadini saranno forse anziani e conservatori, ma non vogliono rinunciare al proprio habitat tradizionale. Pertanto, più si aprono le porte agli immigrati, più si deve essere inflessibili nel pretendere il rispetto delle regole ( anche le più banali, che confinano con il civismo e la buona educazione). Per non parlare del rigore massimo da imporre per prevenire il terrorismo islamico.
Infine ( e l’Economist stesso lo fa) si può passare a proposte più discutibili, magari non “politicamente corrette” secondo gli standard prevalenti, ma creative e forse realistiche. Il ricco vede l’immigrato come un prezioso fornitore di servizi e lavoro. L’uomo della strada, come uno che lo costringe alla fila nell’ambulatorio pubblico e che ottiene diritti non sudati. Non è vero che l’immigrato è un costo. Ci servirà a pagare il passivo previdenziale e si è calcolato comunque che dia al sistema più di quanto prende. Il tipico immigrato dall’Europa continentale, ad esempio, anche se Boris Johnson e Nigel Farage non amano ricordarlo, versa nell’arco della sua vita lavorativa alla Gran Bretagna 78 mila sterline più di quanto riceve.
Ma qualcosa si può fare. L’economista americano William Niskanen, grande esperto della materia. ha scritto: «Bisogna costruire un muro non intorno alle frontiere, ma intorno al welfare State ». In sostanza, bisogna a suo parere rendere più difficile per l’immigrato l’accesso ai benefici dello Stato sociale.
Ad esempio, stabilendo che vi possa accedere soltanto dopo un certo numero di anni ( anche per evitare abusi). Sempre secondo questa filosofia, mentre si ostacola l’immediato accesso ai benefici, si può e si deve favorire l’accesso a un lavoro in regola. Ma in regola e a condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle dei locali.
Esempio? Si può far pagare una ragionevole imposta temporanea sul lavoro degli immigrati, il cui gettito venga immediatamente usato a vantaggio dei cittadini. Si possono organizzare delle lotterie i cui biglietti vincenti assicurano un permesso di ingresso e lavoro. E’ una discriminazione intollerabile? Chi guadagna quattro volte più che nel suo Paese di origine forse la accetterebbe volentieri. Ed esiste anche qui una controprova, magari troppo cruda per essere sottolineata.
Negli Emirati, gli immigrati sono tre quarti della popolazione. Non avranno mai la cittadinanza, lavorano con 40 gradi all’ombra e sono trattati con pochi riguardi. Ma sono ben felici di restare. Così come sono felici e per nulla timorosi dell’invasione straniera il 25 per cento di Emiratini doc.
Si tratta di proposte immorali? Non si può certo fare come a Dubai, ma uno sguardo alla storia anche recente aiuta. Fatevi raccontare dalle elité di origine italiana a New York ( oggi con l’appartamento accanto a Central Park) cosa hanno sofferto i loro antenati negli slums di Brooklyn.
Oppure, più semplicemente, quali sacrifici hanno fatto i bisnonni degli attuali milanesi e torinesi arrivati da Mezzogiorno. Si tratta di argomenti pericolosi e scivolosi.
Tuttavia uno sforzo per uscire dal conformismo va fatto da chi gli immigrati li vuole. Perché, tra i due estremismi ricordati all’inizio, come si vede in tutto l’Occidente, quello “cattivista” vince ( mettendo in pericolo persino la democrazia) e quello “buonista” perde. Spetta dunque a quest’ultimo cambiare lo schema di gioco.
Non mutuando dosi di cattiveria, ma introducendone altre improntate a pragmatismo e gradualismo.