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Come scoprire l’affermazione di una egemonia culturale? La domanda, posta pubblicamente da Angelo Panebianco qualche giorno fa, è forse decisiva per comprendere ciò che sta avvenendo nello scenario politico mondiale. Un modo ci sarebbe, rispondeva il politologo: se una qualsiasi narrazione ( pseudo o para ideologica), viene messa in circolazione da tutta una serie di fonti e, già dopo un po’ di tempo, si scopre che quell’impasto di giudizi, valutazioni e reazioni psicologiche ed emotive, è da tempo penetrato nelle menti di molti, diciamo dei più, diventando senso comune diffuso, allora è oggettivamente «possibile riconoscere che una egemonia culturale si è consolidata».
Una constatazione, questa, che vale, in particolare, per l’analisi dei fenomeni populistici degli ultimi tempi. Per i quali è davvero sbagliato parlare di reazioni transitorie destinate prima o poi a rientrare. E che richiamano, semmai, qualcosa di profondo e che, in qualche modo, viene da lontano.
Soffermiamoci, in particolare, alla particolare versione che potremmo chiamare “sovranista” del populismo, quella tanto per intenderci che si è espressa nella vittoria negli Usa di Donald Trump e che sta dietro l’espansione di consensi in Francia per Marine Le Pen. Distinguiamo, in altre parole tra la variabile solo anti- establishment e movimentista del populismo ( M5S, Podemos, Pirati) e quella, sostanzialmente, xenofoba e isolazionista che sta avanzando in Francia, Olanda, Austria, Ungheria… Studiando – come hanno fatto due studiosi francesi, Luc Boltanski e Arnaud Esquerre in Verso l’estremo. Estensione del dominio della destra ( Mimesis, pp. 77, euro 6,00) – capiremmo infatti come dietro a fenomeni come l’ascesa di Marine Le Pen c’è soprattutto una “questione di egemonia”.
Un insieme di espressioni e temi, esordiscono nella loro analisi i due sociologi, sono ormai egemoni per il fatto che sono di fatto reperibili, seppur a livello diverso di elaborazione e intensità, nelle parole, negli scritti, negli interventi televisivi sia di personaggi mediatici sia di ambiziosi saggi accademici che si sono diffusi con una rapidità e una facilità tali «che il loro uso poteva essere considerato in molti casi frutto non soltanto di impegno personale quanto di una sorta di adesione tacita allo spirito del tempo».
Ci si riferisce a un lessico e a una scelta di argomentazioni che unisce giudizi e stati d’animo dell’estrema destra con pulsioni dell’estrema sinistra, definendo un nuovo e inedito campo semantico populista in cui i processi e gli assetti economici sovranazionali definiscono sostanzialmente il “nemico principale”. Il tutto con un atteggiamento critico e risentito caricato di significati nazionalisti, isolazionisti, moralistici, iper- securitari e difensivisti. Una critica, aggiungono i nostri autori, rivolta soprattutto contro l’Europa, «accusata di essere il cavallo di Troia della globalizzazione e della finanza internazionale, impoverendo così il “vero popolo di Francia” a vantaggio, da una parte, degli immigrati, dall’altra, delle élite cosmopolite».
L’inflessione nazionalista data poi alla critica del liberalismo tipica dell’estrema destra francese si è fusa con quanto teorizzato e diffuso da intellettuali, giornalisti e personalità politiche provenienti dalla sinistra o dall’estrema sinistra, così che, sempre più spesso, il riferimento a questa figura critica che associa la stigmatizzazione del liberalismo in quanto tale e del potere della finanza all’odio delle istituzioni europee e sovranazionali, alla difesa del popolo nazionale e a un diffuso senso di xenofobia, si trova da qualche tempo ripreso da segmenti provenienti dalla gauche che non si distinguono più dall’estrema destra.
Un processo, precisano Boltanski e Esquerre, che si accompagna «a un’ammirazione non dissimulata per la Russia autoritaria, resa certamente più simpatica dal suo anti- americanismo, anti- europeismo e nazionalismo o, talvolta, panslavismo». Un modo di pensare che nasconde, sottolineano ancora i due sociologi, uno strano paradosso, quello per cui coloro che sono ardentemente convinti che il liberalismo sia il nemico principale, correndo il rischio di confondere l’ultraliberismo economico con il liberalismo politico e i suoi diritti, sarebbero probabilmente «incapaci di sopravvivere in un mondo che non fosse liberale sul piano politico e nel quale, per esempio, non potessero circolare liberamente, scegliere chi incontrare, come distrarsi, quali opere prediligere, dove abitare e che lavoro svolgere, se professare o meno una fede religiosa, con l’esercizio pubblico della parola sottomesso a controlli rigorosi e a un prezzo maggiore di quello attuale».
Fatto sta che il Front National di Marine Le Pen e i partiti assimilabili, in Olanda, Germania, Polonia o Ungheria, avanzano in maniera esponenziale, fornendo voce e rappresentanza all’impasto di pulsioni, sensazioni e valutazioni di cui stiamo parlando, rinvigoriti dall’afflusso di rifugiati in fuga dalle guerre in Medio Oriente che una certa propaganda giornalistica considera tutti jihadisti potenziali. E tutti questi soggetti politici sottolineano propagandisticamente il fatto di aver superato la vecchia opposizione tra destra e sinistra.
Non facendo altro, spiegano però Boltanski e Esquerre, che riattivare uno dei più vecchi e pregnanti schemi dell’Action Française e dei tempi di Vichy, il cui slogan principale, come aveva sottolineato lo storico israeliano Zeev Sternhell, era proprio quello di “né destra né sinistra”. Uno slogan, però, tutt’altro che post- ideologico e neo- sintetico ma dietro cui, in realtà, non si nasconde altro che un’ossessione per l’identità, un rifugio nel nazionalismo chiuso e nell’isolazionismo economico, la difesa di una presunta morale tradizionale minacciata dalla contaminazione di popolazioni diverse, la xenofobia, l’anti- islamismo. Certo, «gli attentati commessi in nome dell’Islam, l’esacerbarsi della guerra civile in Siria, nella quale la Francia è impegnata, le divisioni presenti in seno all’Europa a causa della sua incapacità di gestire la crisi greca e la Brexit, creano le condizioni ideali – si legge in Verso l’estremo – per favorire chi parla di sovranità nazionale e di sicurezza».
Se si tiene conto che già l’Action Française di Charles Maurras, dalla fine dell’Ottocento sino agli anni Quaranta del secolo scorso, aveva preteso di sposare la causa della difesa di una cultura alta, minacciata dalla modernità cosmopolita, e un’idea ancestrale di popolo minacciato dagli stranieri, ci si rende conto che, in realtà, saremmo alla ripetizione di uno schema già collaudato. «Con la differenza – sottolineano i nostri due sociologi – che esso riorienta soprattutto contro i musulmani un’ostilità che nella prima metà del Novecento colpiva principalmente ebrei ed ebraismo, svolgendo un ruolo centrale nella costruzione di un vero popolo autoctono, schiacciato dai meteci e dagli stranieri interni».
Una forma di identitarismo nazionalista che, oltretutto, viene abilmente spacciato per una sorta di resistenza laica e repubblicana, “modello Fallaci”, alla minaccia dell’integralismo islamista ma che, appunto, a interpretarlo bene si rivela dello stesso impasto dell’antisemitismo francese d’inizio Novecento. E va ricordato che anche Maurras, ateo e positivista dichiarato, parlava ossessivamente di Francia cristiana in termini identitari e nazionalisti, al punto che il suo movimento venne condannato da Pio XI nel 1926 proprio per il fatto di subordinare la religione alla politica e al nazionalismo. I libri di Maurras vennero messi all’indice per decreto del Sant’Uffizio proprio perché – egemonicamente – stavano incantando e portando fuori strada tanti giovani cristiani francesi. E, come oggi il movimento della Le Pen, l’Action Française aggregava anche intellettuali provenienti dalla sinistra, si pensi solo al caso del socialista rivoluzionario Georges Sorel.
Quindi, niente di nuovo sotto il sole. Una nuova crisi epocale ha semmai riproposto certe antiche sirene e certe facili ricette. Dietro tutto, come dicevamo all’inizio, c’è un’egemonia culturale impostasi di fatto negli ultimi anni. Si pensi solo al fatto che gli scaffali delle librerie francesi sono da tempo zeppe di saggi sulla fine della Grandeur transalpina e sulle cause della crisi economica, opere di critica al multiculturalismo, alla globalizzazione, all’élite economico- finanziaria.
Non sono tanto gli intellettuali, dunque, ad adagiarsi sulle spalle della Le Pen per avere successo, quanto il fatto che i francesi abbiano deciso che leggere questi libri contribuisca a disvelare la realtà sociale. Magari inconsapevolmente, ma di fatto, Michel Houellebecq con i suoi romanzi, l’economista Jacques Sapir e il filosofo Michel Onfray propongono da tempo un’alleanza tra le forze “sovraniste”, attraverso una sintesi che comprenda le istanze della fu sinistra operaistica e anti- sistema e quelle dell’estrema destra nazionalista, per far sì che si possa tornare a dominare i processi della politica economica e si risolva il problema occupazionale.
Così come, da anni, Jean- Claude Michéa denuncia da anni la commistione tra la sinistra socialista e il capitalismo finanziario: lui proviene da sinistra ma sembra che le sue analisi ispirino i discorsi della Le Pen. Boltanski e Esquerre, allievi del sociologo e filosofo Pierre Bourdieu, denunciano e spiegano nel migliore dei modi questo processo, il quale ha permesso convergenze la cui forza sta nell’ambiguità, come testimonia un seguito disperso tra l’estrema destra e ciò che resta della sinistra radicale. E non è solo una questione di ceti operai e popolari che non si sentono più rappresentati dai socialisti.
Il risultato è semmai quello dell’avvenuta costruzione di un’egemonia, per la quale il “sovranismo” lepenista «non smette di accogliere tra le sue fi- la, come membri effettivi o come compagni di strada, anche un numero crescente di alti funzionari e intellettuali che fino a poco tempo fa evitavano con cura questo genere di legame, pensando che avrebbe potuto mettere in pericolo la loro carriera». Insomma, concludono i due sociologi, il paradosso è che cresce un fenomeno in cui la xenofobia, l’isolazionismo, l’anti- europeismo e l’islamofobia si mescolano a una sorta di “pensiero critico” sulla globalizzazione e sull’impoverimento generalizzato.
E questo fenomeno, diventato una parte del senso comune diffuso, circola senza più autocensura in libri a grande diffusione, sui giornali, alla radio e alla televisione per non parlare di Internet. Un senso comune le cui parole «devono una parte sostanziale della loro forza al fatto di trovarsi al fondo di una catena di significazione la cui concezione deve molto a pensatori ospitati in istituti d’insegnamento e di ricerca». Un’egemonia si è insomma affermata, per riprendere la sollecitazione di Panebianco.
E l’interrogativo necessario è solo una: non è che ciò sia avvenuto proprio perché dal resto dell’universo politicoculturale si è nel frattempo verificata una resa incondizionata e una desistenza di fatto all’anti- politica e all’amministrativismo tecnocratico? Come ha spiegato Panebianco, le egemonie culturali sono talvolta il frutto della capacità di chi le ha create ma altre volte – come nell’attuale ondata populista – avvantaggiano alcune forze senza particolari loro meriti ma solo per l’abbandono del campo da parte degli altri. In Francia, come altrove, sarebbe allora forse più che urgente – e salutare – un ritorno a una vera politica: partecipata, democratica e, soprattutto, connotata da uno sguardo sul futuro.