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Nella vulgata mediatica, il filosofo per eccellenza del 900 è Heidegger. Ben diverse le fortune di un pensatore più o meno contemporaneo, l’abruzzese- napoletano Benedetto Croce. Personalmente invece ritengo che se c’è un erede di Nietzsche, l’araldo della modernità, è proprio il provinciale don Benedetto.
Nella vulgata mediatica ( che si esibisce non solo nel web ma dovunque, spudoratamente occhieggiando persino di tra le pagine del più ponderoso trattato accademico di gnoseologia o di etica) il filosofo per eccellenza del ‘ 900 è Heidegger. E si capisce: è tedesco, ha insegnato a Friburgo, può essere considerato l’erede della grande tradizione egemone, tra Kant ed Hegel, del pensiero non solo tedesco ma europeo. Eppoi è oscuro, ermetico, profetico, con le sue passeggiate solitarie per scoscesi holzwege, esplora orizzonti infiniti e imperscrutabili, emana un sentore demoniaco e stregonesco, dà soddisfazione a tanti piccoli superuomini che sulle sue orme si sentono accolti nella ristretta schiera degli eletti capaci di attingere alle fonti del pensiero “autentico” - lo “essere- per- la- morte” - come cavalieri del Graal lontani dal volgo di coloro che non sanno districarsi dal “chiacchiericcio” dell’inautentico. Tutto un po’ elitario se non proprio nazista, e dunque gratificante.
Ben diverse le fortune di un pensatore più o meno contemporaneo del grande tedesco, l’abruzzese- napoletano Benedetto Croce. Davanti a lui i sofisticati accademici storcono il naso, snobbandolo senza riguardi: troppa concretezza, niente slanci metafisici, niente fascino accattivante, troppo rompiscatole, sempre un po’ retrò, ecc. Magari un po’ troppo amato da non filosofi, forse per ripicca i filosofi e gli accademici gli contrapponevano e gli contrappongono, ancor prima che Heidegger, Giovanni Gentile. Personalmente invece ritengo che se c’è un erede di - per dire - Nietzsche, l’araldo della modernità, è proprio il provinciale don Benedetto che Nietzsche non lo amava, come non amava la ' décadence' che al portavoce di Zaratustra si è sempre ispirata.
Croce arriva alla filosofia non meditando in biblioteca sui testi canonici ma attraverso un chiuso e introverso dramma esistenziale. Nel 1883, quando aveva appena diciassette anni, lui e la sua famiglia vennero travolti dal devastante terremoto di Casamicciola. Il ragazzo restò sepolto per ore sotto le macerie ma si salvò, i familiari morirono. L’orfano venne accolto dai cugini Silvio e Bertrando Spaventa, ma lo choc perdurò a lungo, e a lungo Benedetto fu tentato dal suicidio. Lui stesso ha raccontato come il ricordo della terribile esperienza lo avesse perseguitato a lungo e come riuscì a salvarsi dal lacerante travaglio spirituale. Nella solitudine, cominciò a meditare sui valori della vita, di una vita degna di essere vissuta positivamente. Forse per questa via - quasi un espediente terapeutico - il non ancora filosofo abbozzò alcuni concetti destinati nel tempo a divenire i cardini del suo “sistema”, il sistema della “filosofia dello spirito”. Croce non era credente, non si affidò a dio, ma forse allora venne scoprendo che solo la verità, la bellezza, la giustizia e l’individuale ma solido utile sono valori/ categorie costitutivi del mondo, della realtà, del pensiero che la pensa. Più che la dialettica hegeliana o le classificazioni herbartiane, i quattro “momenti” della vita dello spirito su cui poi Croce lavorò con indefesso rigore filosofico nascono dalla meditazione sulla sua esperienza personale. Questa intuizione sfociò nella teoria di una dialettica dei distinti, caratterizzata dalla compresenza - in ognuno dei quattro “momenti” dello spirito - del positivo e del negativo: il bello e il suo contrario - il brutto -, il vero e il falso, ecc. Modernissima, anzi rivoluzionaria la sua scoperta dell’utile come “momento” autonomo della vita spirituale.
In questo pensiero non c’è alcuno snobismo, per Croce ogni uomo ( o donna, si capisce) pensa e fa filosofia nel suo concreto, vario, agire quotidiano. Il filosofare del filosofo è solo lo sforzo continuo e tormentoso di “schiarire” il pensiero, il concreto pensare dell’uomo. E’ qui, credo, il fondamento del suo storicismo. Sulle orme di Vico, Croce ritiene che ciò che l’uomo può davvero conoscere è solo quel che egli stesso ha edificato, e che dunque solo la storia/ storiografia può far rivivere, rendere attuale, contemporaneo.
Per Nietzsche, se Dio è morto tutto diventa possibile: una risposta che ci consegna ad un nichilismo assoluto. Anche per Croce Dio è storicamente morto ( ma il portato del cristianesimo sopravvive a quella morte) però l’uomo deve, in conseguenza, farsi responsabile del suo agire, nell’ambito di una rigorosa etica della responsabilità e del dovere cui si devono le “are” e i “templi” che segnano il percorso storico della civiltà. Per questo, Croce detesta e respinge ogni forma di “decostruzionismo”, di “denuncia” delle cosiddette “menzogne della civiltà” di cui si nutrono molte mode pseudofilosofiche, espressione di un estetismo egocentrico e narcisista, quello che impregna il pensiero del tardoromantico Heidegger.
Anche Croce ebbe le sue contraddizioni: la prima quando, nella disperazione dell’impotenza dinanzi al vittorioso dilagare delle dittature europee, si rifugiò nell’ideale di una metastorica “religione della libertà” comunque e sempre vittoriosa sugli accidenti della storia; la seconda quando, già ottantenne, dovette arrendersi al riconoscimento della presenza - al di là e precedentemente rispetto alle categorie dello spirito di un “verde”, inconscio e inafferrabile albero della vita, di cui si nutre ogni forma dello spirito.