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Ho letto il discorso pronunciato dal Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, all’apertura dell’anno giudiziario. Scarpinato è un magistrato con una lunga storia, anche gloriosa, ha mosso i primi passi in magistratura come allievo di Falcone, nel pool antimafia. È una persona preparata, colta, non un improvvisatore.
Il suo discorso era molto interessante e da me condiviso quasi al 100 per cento, salvo un particolare piccolo piccolo che ora dirò. Scarpinato ha denunciato con asprezza la crisi sociale ed economica che attanaglia la Sicilia e che la sta rovinando. La povertà è sempre più grande e profonda. Caro Scarpinato, hai ragione.
La povertà è sempre più grande e profonda. I ricchi sono sempre di meno e sempre più ricchi. La Sicilia - dice Scarpinato - è la regione con le differenze sociali più forti di tutt’Italia e di tutt’Europa. Naturalmente è difficile in queste condizioni combattere la mafia. Perché la mafia prospera dove c’è più povertà, meno diritti, maggiori differenze di classe.
Io, personalmente, non ho mai nascosto le mie simpatie per le idee della sinistra. Di conseguenza trovo giusta l’analisi di Scarpinato ( è una analisi di sinistra che spesso la sinistra politica non riesce a fare). Anche se poi non mi convince la seconda parte del suo discorso, quella nella quale snocciola tutte le cifre che dimostrano l’aumento della corruzione: provata dall’aumento dei procedimenti penali avviati. Già, ma non dalle condanne. Perché se invece consideriamo le condanne, allora la corruzione, in tutt’Italia, da qualche anno è in netta discesa, tanto che oggi l’Italia è giunta a un livello di corruzione inferiore alla media europea.
Il punto è questo: a Scarpinato non interessano le condanne ma le denunce. Almeno, così mi pare di aver capito. Lui ritiene che il fenomeno sociale è testimoniato dalle denunce, e che la diminuzione delle condanne sia solo la spia di un cattivo funzionamento della giustizia e della burocrazia.
Ecco, è qui il mio dissenso con la sua relazione. Trovo che seppure molto robusta dal punto di vista sociologico e politico, sia stata una relazione molto povera dal punto di vista del diritto e della giurisprudenza. E penso che invece un Procuratore generale dovrebbe occuparsi della giurisdizione, e non dell’amministrazione politica di una regione. La magistratura, io credo, non è chiamata a governare un paese e a renderlo socialmente e strutturalmente più giusto. E’ chiamata a giudicare i reati, a vedere se ci sono, e dove sono, e a condannare se ci sono e son provati, e sennò ad assolvere. Io capisco perfettamente la sofferenza di un magistrato, chiamato a indagare o a giudicare, e che nel corso del suo lavoro vede in modo nitido la grandiosità delle ingiustizie sociali, e sente di dovere di combatterle, di denunciare, di opporvisi, o di correggerle. Il problema è che non è stato chiamato in magistratura per questo, ma per altro. Se ritiene che il suo compito sia quello di lottare, fare battaglia politica e governare, benissimo: però deve lasciare il suo lavoro di magistrato.
Voglio fare un esempio estremo, e forse non perfettamente pertinente, ma che rende l’idea: un chirurgo chiamato a operare al cuore un capo di governo che lui ritiene un pessimo capo di governo, che sta rovinando il paese, deve operare nel modo migliore possibile per salvargli la vita. Poi, la sera, quando non ha più il camice addosso, può organizzare una oceanica manifestazione contro di lui. Ma senza il bisturi.
Purtroppo c’è una parte non grandissima ma vistosissima della magistratura che di questo mio ragionamento non vuol sentir parlare. È convinta di avere un compito molto più alto del compito, banale, di indagare, cercare le prove, giudicare con la massima oggettività. Il compito di salvare l’Italia dai malvagi e consegnarla ai giusti.
E non è solo un pezzo di magistratura a vedere così le cose. C’è una fetta molto larga di intellettualità e di giornalismo. Domenica è uscito su Repubblica un editoriale di Liana Milella. La quale sosteneva che la legislatura si è conclusa con una netta vittoria della politica sulla magistratura. E si doleva di questa vittoria. Diceva che ormai la magistratura è fuorigioco, e che non ha più nessuna possibilità di condizionare le leggi, e che il parlamento va per conto suo e non rispetta più le esigenze della giustizia.
Io penso che purtroppo non sia affatto vero. La legge che allunga la prescrizione è stata imposta dai magistrati ai politici. Le regole sulle intercettazioni restano tali da permettere all’Italia di essere il paese più intercettato del mondo ( storicamente secondo solo alla Germania di Honecker) 100 volte più intercettato della Gran Bretagna ( pur avendo un indice di criminalità molto inferiore a quello inglese). La legge ( incostituzionale) che estende alla corruzione la legislazione antimafia ( e i sequestri preventivi dei beni) l’ha voluta l’Anm, e l’ha avuta, così come ha voluto una legge saponetta sulla responsabilità civile dei magistrati e ha impedito che fosse presa in considerazione la separazione delle carriere.
Ma quel che mi colpisce non è l’affermazione ( discutibilissima) della Milella secondo la quale i magistrati sarebbero stati privati della possibilità di imporre le proprie leggi. Mi colpisce la chiarezza con la quale la Milella ci presenta il suo parere, secondo il quale, i magistrati, in tema di giustizia, dovrebbero disporre del potere legislativo.
È questo il grande equivoco che sta provocando un corto circuito nella nostra democrazia fondata sulla divisione dei poteri. E’ l’equivoco secondo il quale i poteri, sì, sono tre, ma uno - quello giudiziario - è sovraordinato agli altri due, e li condiziona, e li dirige, e li punisce. E a questo equivoco la politica non si oppone, o si oppone troppo blandamente. Ed è il motivo per il quale la relazione di Scarpinato per certi versi mi affascina, per altri mi terrorizza.