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«Congresso? Assolutamente sì, ma vero e non una “gazzebata”. Anche per questo non vorremmo andare ad elezioni anticipate». Miguel Gotor, senatore del Partito Democratico, spiega la rotta della minoranza democratica fuori e dentro il partito, «senza alcuna tentazione di cambiare casacca» per seguire Giuliano Pisapia.
Partiamo dalla dichiarazione di Pierluigi Bersani, che ' allunga' la vita al governo Gentiloni anche fino al 2018. Un cambio di rotta rispetto alle titubanze iniziali?
Direi di no. Abbiamo sempre detto che questo governo dura se fa le cose e verrà giudicato da noi, provvedimento per provvedimento. Penso che l’Italia, dopo avere vissuto tre anni dentro una bolla comunicativa alimentata da fibrillazioni continue, abbia bisogno di un po’ di quiete dopo la tempesta. Sarebbe saggio per tutti.
Lei ritiene che il governo Gentiloni abbia la forza politica di proseguire oltre l’approvazione della futura legge elettorale?
Qualche giorno fa un bell’articolo sul Corriere di Fubini sui cassetti da riaprire indicava ciò che ci sarebbe da fare, se si anteponesse l’interesse nazionale a quelli di fazione. Di certo la legge elettorale va fatta, dopo l’imbarazzante testa coda sull’Italicum, e bisognerà armonizzare i due sistemi tra Camera e Senato. Francamente non consiglierei al mio partito di cambiare tre volte governo nel corso di una sola legislatura e a Renzi di far cadere un altro esecutivo dopo quello di Letta.
All’interno del gruppo parlamentare che aria si respira?
La situazione del Senato è sempre stata migliore di come viene descritta dai media. Il risultato del 4 dicembre è stata per molti una scoppola inaspettata, soprattutto nelle dimensioni. Nelle scuole di pugilato insegnano che se si prende un ko, la cosa peggiore da fare è pensare di rialzarsi subito per restituire il colpo. Se si fa così, alla ricerca di immediate rivincite è la volta che si finisce definitivamente al tappeto. In questa fase bisogna legarsi all’avversario per riprendere il fiato e le forze. Questo sarebbe l’interesse del Pd e mi sembra che il mio sia un giudizio abbastanza condiviso dai colleghi. Poi certo, ci sono i pasdaran come Roberto Giacchetti, ma questo è un altro discorso che fa folklore e non politica.
Guardiamo al fronte del Partito Democratico. Si parla ancora di congresso, il tema è stato temporaneamente congelato?
Noi vogliamo che si tenga un congresso vero nei tempi fisiologici e con le modalità stabilite dallo Statuto. Anche per questo non vorremmo elezioni anticipate: ciò imporrebbe una “gazzebata” di un giorno solo per la scelta del candidato premier e dunque la riproposizione di un modello plebiscitario e polarizzante che, a mio parere, rischia di condannare il Pd a una sonora sconfitta alle prossime elezioni, peraltro come appena avvenuto con il referendum.
La sensazione, almeno dopo l’ultima Assemblea nazionale, è che i rapporti tra la minoranza dem e la componente renziana siano sempre più tirati. Ci sono margini di incontro?
Dal mio punto di vista, sempre. La politica è l’arte di trovare una risposta alle soluzioni più difficili. Certo, nel rispetto e nella chiarezza delle posizioni. Se il Pd vuole rimanere un grande partito, deve tollerare all’interno una pluralità di posizioni e lo dice uno che ha votato 56 fiducie al governo Renzi, anche su provvedimenti assai diversi dal programma con cui è stato eletto in Parlamento.
A proposito di Matteo Renzi, l’ex premier è ancora una risorsa oppure è diventato un problema da gestire, per il Pd?
Renzi è il segretario e lui spetta il compito di garantire l’unità del partito e la linea di direzione politica. Per quanto mi riguarda io sono impegnato con altri a costruire un’alternativa a Renzi dentro il Pd: non per ragioni di carattere personale, ma perché credo che la sua linea di rottura a sinistra per prendere i voti a destra sia sbagliata e perdente. Penso che i risultati delle ultime amministrative e del referendum debbano quanto meno indurre a un minimo di riflessione e a una maggiore umiltà.
E quale riflessione ha prodotto la sconfitta del 4 dicembre?
A mio modo di vedere, quella sconfitta è stata rimossa perché non è stata ancora metabolizzata nelle sue dimensioni. Essa, tuttavia, segna la sconfitta di un tentativo di torsione iper- maggioritaria della democrazia italiana, un progetto trentennale concepito, sul piano delle culture politiche, dalla destra comunista italiana e da una parte - non tutta - di cattolicesimo democratico, come risposta alla crisi della rappresentanza e dei partiti dopo gli anni Settanta. L’idea che l’equazione italiana si potesse risolvere dall’alto, con un intervento di ortopedia istituzionale.
Rimane il problema di come ripartire...
Ora ci troviamo in mare aperto, col dovere di elaborare nuove strategie come centrosinistra. Per dire come è cambiato il campo di gioco, però, basti pensare che il Renzi trionfante dell’Italicum e della riforma del Senato, dopo la sconfitta del 4 dicembre, metterebbe la firma per ottenere un risultato simile a quello di Bersani del 2013. Allora era stato vissuto come una sconfitta, ma con quei voti il Pd ha governato per quattro anni, per la prima volta nella sua storia.
Il referendum della Cgil, anche se azzoppato del quesito sull’articolo 18, minaccia invece di creare un’ulteriore frattura nel popolo della sinistra. Lei che posizione terrà?
In Parlamento mi impegnerò a correggere i due provvedimenti per evitare i referendum e penso che il governo Gentiloni dovrebbe assumere un’iniziativa in merito. Se ciò non avvenisse voterei sì a entrambi i quesiti.
Sembra prendere forma, a sinistra, il ' Campo progressista' di Giuliano Pisapia. È un’esperienza che potrebbe tentare qualcuno della minoranza Pd?
Per ora è un’esperienza esterna al Pd, ma noi siamo nel Pd e vogliamo rimanerci. Credo che il tipo di legge elettorale condizionerà il progetto di Giuliano Pisapia, una personalità che ha tutta la mia stima. Stiamo a vedere.