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Da qualche mese è stata avviata alla Camera la trattazione della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere penali italiane. Vediamo qualcuna delle ragioni su cui si basa.
La struttura del modello processuale accusatorio è triadica e i tre protagonisti, giudice, pubblico ministero e difensore, sono indipendenti, hanno ruoli e funzioni differenti.
Basterebbe questa considerazione per convenire sulla necessità che il giudice sia separato dal pubblico ministero dal punto di vista ordinamentale, sia cioè effettivamente “terzo”, ovvero estraneo ad entrambe le parti, oltre che “imparziale”, cioè formalmente indifferente all’esito della causa.
È difficile negare che l’intero sistema si basi sulla necessità di proteggere l’indipendenza del giudice e ancor prima l’immagine di tale indipendenza, sia dalle parti del processo ( indipendenza interna), che dagli altri poteri dello Stato ( indipendenza esterna). Non a caso, questa è la prima preoccupazione di tutte le democrazie evolute.
Ciò non può avvenire quanto lo stesso giudice è legato ad una delle parti, con la quale condivide il concorso di accesso alla magistratura, la scuola di formazione, gli avanzamenti di carriera, la disciplina e l’organo di governo.
Domandiamoci ora, in concreto, se nel nostro sistema esista un problema di squilibrio tra poteri interni alla magistratura, che possa condizionare l’indipendenza del giudice.
La risposta appare abbastanza evidente.
Il momento centrale del procedimento, quello nel corso del quale si possono determinare le sorti di un centro di potere, perfino del Governo, è nella fase delle indagini preliminari.
Di questa è divenuto esclusivo titolare, appunto, il pubblico ministero, che nella vigenza del codice inquisitorio, al contrario, per i delitti più gravi, recitava solo un ruolo secondario rispetto al giudice istruttore, cui era attribuito il compimento degli atti dell’istruzione formale. Da qui deriva, nel mutato assetto del sistema processuale, lo strapotere del pubblico ministero anche nei confronti del giudice. L’eco mediatica delle indagini amplifica poi questo enorme potere, che non è condizionato da alcuna regola effettiva nell’esercizio dell’azione penale, posto che l’obbligatorietà, che i costituenti avevano immaginato, affidandola all’articolo 112 della Costituzione, al fine di rendere tutti i cittadini uguali davanti alla legge, è del tutto inattuata e certamente inattuabile ( non solo in Italia, ma in tutto il mondo). Ad essa si sostituisce, inevitabilmente, il mero arbitrio.
Questo innegabile “status” giudiziario e mediatico del pubblico ministero si incontra poi con il sistema elettorale del Csm, le cui dinamiche fanno sì che gli eletti della componente togata siano decisi in base al peso politico delle varie correnti interne dell’Associazione Nazionale Magistrati. Ne consegue che anche le decisioni del Csm circa l’assegnazione degli incarichi di “potere”, siano, come peraltro è del tutto noto, assunte prima e fuori dalla sede istituzionale a ciò preposta, ovvero all’interno dell’Anm, secondo i rispettivi equilibri correntizi.
Basta prendete atto che negli ultimi venti anni i presidenti dell’Anm sono stati praticamente sempre pubblici ministeri, malgrado su circa diecimila magistrati gli stessi siano solo duemila, per rendersi conto di quali siano i rapporti interni di forza e di come, in concreto, la componente inquirente della magistratura possa incidere sulla carriera dei giudici, magari proprio di quello stesso giudice che poco prima ha negato una richiesta di misura cautelare in un importante procedimento “mediatico”. Non è neppure necessario che ciò avvenga per doversi interrogare sull’equilibrio del sistema: è sufficiente che possa avvenire, per concludere che non è garantita l’indipendenza del giudice.
Le ragioni della necessità della separazione delle carriere sono di tale evidenza che nessuno si spinge ad affermare che determinerebbe effetti negativi sullo status del giudice, finalmente libero da legami con l’“accusatore”. Le obiezioni si concentrano tutte sulla ricaduta che tale riforma avrebbe sulla figura del pubblico ministero, novello “orfano”, si dice, della sua natura giurisdizionale. Si agita lo spettro del pubblico ministero poliziotto che, privato della cultura della giurisdizione, diverrebbe insensibile ai diritti dell’indagato, proiettato verso l’ottenimento della condanna a qualsiasi costo, irrispettoso perfino dell’autorità del giudice.
L’affermazione sembra però se non temeraria, quantomeno un po’ azzardata, posto che in quasi tutti i Paesi a democrazia evoluta è attuata la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri e non consta che ovunque il pubblico ministero si sia manifestato con tali inquietanti tratti di insensibile e ottusa pervicacia persecutoria. La considerazione vale sia per quasi tutti i Paesi europei ( tra cui Germania, Svezia, Spagna, Portogallo e Inghilterra), che per le principali democrazie extra- europee ( Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda e Giappone). Un’organizzazione unitaria, al contrario è prevista in Francia, ove peraltro vige tutt’ora il sistema processuale inquisitorio: e a dimostrazione ( ove ve ne fosse bisogno) del fatto che la stessa non garantisce assolutamente l’indipendenza esterna del pubblico ministero, quest’ultimo risponde all’esecutivo.
Allo stesso modo l’ordinamento giudiziario è unitario in Bulgaria, Romania e Turchia, che non sembrano però esattamente modelli di democrazia ai quali tendere.
L’Italia è, dunque, un’anomalia e dovrebbe tranquillizzare anche i più preoccupati conservatori, che anche il Comitato Consultivo dei Procuratori Europei, nella recente opinione n. 13 del 2018, abbia sentito il bisogno di sottolineare come “giudici e pubblici ministeri devono godere di reciproca indipendenza nell’esercizio delle loro funzioni e anche apparire come indipendenti gli uni dagli altri”.
E a coloro i quali non si sentissero ancora rassicurati, si può offrire un ulteriore tema di riflessione, ovvero: l’esercizio della funzione del pubblico ministero è veramente caratterizzata dalla sua posizione all’interno di un sistema unitario, che lo vede saldamente legato al giudice, o piuttosto dall’insieme delle regole che disciplinano l’azione penale e il processo?
Per i più distratti vale la pena di ricordare che anche sotto il regime fascista l’organizzazione di giudici e pubblici ministeri era unitaria, com’è oggi, e che nella Relazione al progetto preliminare del ministro Alfredo Rocco, al codice di rito si legge: “Tutti gli istituti processuali sono pienamente informati ai principi fondamentali fissati dalla Rivoluzione spirituale, che creò il presente Regime politico. Le applicazioni processuali delle dottrine demo- liberali, per cui l’individuo e posto contro lo Stato, L’Autorità è considerata come insidiosa sopraffattrice del singolo e l'imputato, quand’anche sorpreso In flagranza, è presunto innocente, sono del tutto eliminate, insieme a quella generica tendenza favorevole per i delinquenti, frutto di un sentimentalismo aberrante e morboso, che tanto ha indebolito la repressione e favorito il dilagare della criminalità”.
Sistema unitario, nessuna garanzia, nessuna indipendenza. Forse vale la pena di ragionarci.
* avvocato, responsabile osservatorio sull’Ordinamento giudiziario dell’UCPI