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È proprio vero: a volte la tecnologia oscura il cervello. Vale per le tabelline alle elementari. Vale per altre operazioni per le quali non serve una laurea in Matematica pura. Ora si fa tutto con la calcolatrice del telefonino, ed il pallottoliere è strumento buono solo per calcolare le maggioranze al Senato.
Qualcuno, però, deve averlo usato per spiegare a Matteo Salvini che poteva cancellare gli “80 euro” ( anche se aveva pubblicamente detto il contrario) per finanziare la “flat tax”; senza che i contribuenti che oggi ricevono il bonus di Renzi subiscano un danno.
LA PAROLA AI NUMERI Oggi fino a 15 mila euro si paga un’aliquota Irpef del 23%. Chi li riceve ha diritto agli “80 euro”. Ne consegue che i contribuenti di questa fascia hanno un netto nominale ( fra Irpef e bonus) di 12.500 euro all’anno. Se a questa stessa fascia di contribuenti si applica la cosiddetta “flat tax” al 15% cancellando gli “80 euro”, il reddito nominale netto è di 12.750 euro all’anno.
Molto probabilmente è per queste ragioni che Salvini si è convinto di poter attivare gli “80 euro” per finanziare per buona parte la riforma fiscale che ha in mente. Complessivamente, il bonus Renzi costa alle casse dello Stato circa 10 miliardi all’anno. Chi lo riceve, però, non può contabilizzarlo ai fini previdenziali.
Quella che impropriamente Salvini chiama “flat tax” in realtà è una riforma fiscale che prevede un sistema con due o tre aliquote: così da garantire la progressività fiscale ( prevista dalla Costituzione), attraverso la scomposizione e ricomposizione di scaglioni ed aliquote. In altre parole, uno schema non troppo diverso da quello che ha in mente Giovanni Tria.
I COSTI Il costo di questa riforma fiscale oscilla fra i 12 ed i 15 miliardi di euro. Cioè, costerebbe quasi un punto di pil. Ma se questo costo dovesse trovare copertura con l’eliminazione degli “80 euro”, l’impatto reale sul deficit sarebbe dello 0,2%/ 0,5%. Tale cioè, da aumentare l’indebitamento concordato con Bruxelles al 2/ 2,3%, rispetto all’ 1,8%.
Forse è a queste cifre a cui si riferisce Claudio Durigon, sottosegretario leghista al Lavoro quando dice che la “flat tax” verrà coperta «con sano deficit». Con un particolare. Per raggiungere l’obbiettivo dell’ 1,8% il governo ha detto alla Commissione che è pronto a far aumentare l’Iva di 23 miliardi.
Poi, rimangiandosi le promesse fatte, nel Documento di economia e finanza, pur confermando l’aumento dell’Iva, ha sostenuto che l’Imposta sul valore aggiunto non aumenterà e che i 23 miliardi verranno recuperati da risorse sostitutive. Nella fattispecie, in buona parte dai tagli alle agevolazioni fiscali.
E qui la questione si complica. Soprattutto per Giuseppe Conte. Non è un mistero per nessuno a Palazzo Chigi che il premier sia riuscito a strappare il via libera di Bruxelles alla passata legge di Bilancio solo perché nel dicembre scorso ha raddoppiato da 12 a 23 miliardi il gettito aggiuntivo Iva per il 2020.
Vale la pena di ricordare che l’Iva è l’unica imposta su cui si calcola il contributo dei singoli Stati alle casse europee. Per la precisione, l’ 1% dell’Iva incassata in uno Stato finisce a Bruxelles. E’ evidente che la Commissione dette il via libera al negoziato di Conte solo per quell’aumento dell’Iva. Con la “finanziaria” di Gentiloni si aspettava di incassare 120 milioni in più. Con quella di Conte, il maggior gettito sarebbe salito a 230 milioni.
Ed è per queste ragioni che difficilmente la nuova Commissione europea potrà rinunciare a quel contributo promesso e che ora rischia di vederlo sfumare, visto che tutte le forze politiche di maggioranza ora si dicono contrarie a quell’aumento; benchè nel dicembre scorso lo abbiano votato in Parlamento.
QUESTIONE IVA Se i 23 miliardi dell’Iva si dovessero trasformare in tutto od in parte in tagli alla spesa od in cancellazioni di agevolazioni fiscali, oltre a tradursi in aumento delle tasse, farebbero anche venire meno un gettito aggiuntivo sul quale Bruxelles conta. D’altra parte se lo Stato tagliasse realmente la spesa pubblica per 23 miliardi di euro vorrebbe dire appesantire il pil di oltre mezzo punto. Cioè, mandare il Paese in recessione.
Il Bilancio dello Stato copre all’incirca la metà della ricchezza nazionale. Visto che 23 miliardi equivalgono ad un punto e mezzo di pil, significa togliere dalla ricchezza italiana complessiva lo 0,6/ 0,7% del pil. E portare la crescita da asfittica a negativa.
Dopo il dietrofront sull’ipotesi o meno di utilizzare gli “80 euro” per coprire la “flat tax” è assai probabile che a breve ci saranno altre mosse analoghe anche sull’aumento dell’Iva.