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Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale
«Esiste un diritto alla vita, ma non un diritto alla morte». A dirlo è il presidente emerito della Consulta Cesare Mirabelli.
Esiste o non esiste un diritto alla morte?
Mi rifarei agli orientamenti della Corte costituzionale: al di là di della sentenza sull’aiuto al suicidio, che pure afferma il diritto alla vita, in quella con la quale è stato dichiarato inammissibile il referendum sull’omicidio del consenziente si afferma che esiste un diritto dello Stato a proteggere la vita ma non un diritto a che lo Stato pratichi o consenta di praticare la morte.
Ma la sentenza sul caso dj Fabo non ha aperto un varco per una legge che contempli anche questa esigenza?
La sentenza e l’ordinanza che la precede stabilisce alcuni criteri da tenere presente. Cioè che, mentre in linea generale la punizione dell’aiuto al suicidio non è illegittima costituzionalmente, ci sono delle eccezioni a questa possibilità di imporre sanzioni anche penali. Questo è un terreno sul quale anche la Corte di Strasburgo lascia agli Stati un margine per decidere il tipo di disciplina da adottare. Quali sono le condizioni che prevede la Consulta? Che la persona sia affetta da una patologia irreversibile, che ci siano sofferenze fisiche o psicologiche che la persona non riesce a tollerare, che sia tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale e che ci sia la capacità di prendere scelte consapevoli. La persona potrebbe già decidere di morire rifiutando questi trattamenti e allungando tuttavia le sue sofferenze. Aggiungo che la Corte ha anche ritenuto nella sua sentenza che occorre il parere del Comitato etico competente e che le condizioni siano verificate da una struttura pubblica, ma non che l’aiuto al suicidio sia praticato dal Servizio sanitario nazionale.
Dunque non viene configurato come un diritto a prestazione anche nei casi indicati e previsti. Il problema che viene posto è se ci siano altre ipotesi in cui l’aiuto al suicidio non possa essere punito penalmente. È un quadro che non qualificherei, però, come eutanasia.
Secondo un sondaggio Swg del 2019 a chiedere l’eutanasia legale è il 93 per cento dei cittadini. Anche la raccolta delle firme per il referendum un milione e 200mila firme dimostra un interesse pubblico ad affrontare questa questione politicamente. Non sarebbe il caso di andare incontro a queste richieste?
Due considerazioni: è vero, il dibattito è opportuno e richiede un approfondimento culturale e una valutazione approfondita di temi così difficili e sensibili.
Che difficilmente, peraltro, possono essere messi a fuoco nei sondaggi, nei quali è anche il tipo di domanda a determinare la risposta. Ma l’altro punto sul quale inviterei a riflettere è che in chiave di diritti/doveri fondamentali l’esigenza di garanzia domina sulla diffusione della volontà.
Ci potrebbe essere una volontà non è certo questo il caso - di eliminare uno o più diritti fondamentali, ma non mi pare che sia giuridicamente giustificato.
Cosa bisognerebbe dire a chi ritiene che la propria vita non sia più dignitosa? Ci sono casi in cui molte persone hanno denunciato di vivere una non-vita.
Mi permetto di fare un’osservazione: mai qualificare la vita come non dignitosa. Su questa linea abbiamo un’esperienza, sia pure dal senso comune valutata come negativa, che è stata orrida in passato. La tutela della vita è essenziale. La legge, in parte inattuata, prevede uno sviluppo delle cure palliative, del prendersi cura e perciò anche del dolore e della condizione della persona. Se è in stato di difficoltà, di minore accudimento e cura, di dolore, solitudine, abbandono, allora certamente la richiesta di morte può affacciarsi.
In questa discussione si affrontano due visioni filosofiche: il principio di sacralità della vita e quello della disponibilità della propria esistenza. Come si risolve questa contrapposizione?
Io non li contrappongo. L’autodeterminazione ci può essere nella misura in cui non richiede il coinvolgimento di altri. E dal punto di vista culturale attenzione anche al piano inclinato che si determina e le scelte che persone più deboli potrebbero compiere. Ci sono condizioni in cui è agevole essere indotti a seguire questa via.
Probabilmente le iniziative che sono in atto porteranno o tenderanno a riportare la questione davanti alla Corte costituzionale sotto il profilo di eguaglianza delle situazioni rispetto a quelle già considerate. Ma nell’impostazione della Corte siamo fuori dal quadro dell’eutanasia, ovvero il diritto a morire che era alla base della richiesta referendaria considerata inammissibile perché in contrasto con l’esigenza di protezione minima necessaria per la vita, sulla base del principio che c’è un diritto alla vita, mentre lo Stato non assicura un diritto alla morte.
Ma non lo dico in chiave polemica, assolutamente: è opportuno che su questi temi si rifletta con grande tranquillità e per quanto riguarda l’attuazione della sentenza della Corte che ci sia una legislazione, come il Parlamento si era avviato a fare nella scorsa legislatura, che detti in maniera più chiara le regole.