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«Verrebbe quasi da compiacersi dell’occasione: noi avvocati, e noi penalisti in particolare, rappresentiamo il soggetto politico– associativo che ha la più elevata credibilità sui temi della giustizia. In una situazione allarmante, abbiamo occasione di costringere lo stesso guardasigilli a rispondere ai nostri precisi interrogativi su prescrizione, compressione del processo d’appello e tenuta delle garanzie in generale». È questo l’orizzonte che propone, agli iscritti all’Ucpi, Giandomenico Caiazza, candidato alla presidenza della stessa Unione.
Avvocato Caiazza, di fatto la tensione sui diritti e in particolare sulle garanzie processuali enfatizza il ruolo “politico” dell’avvoca- tura?
È così, l’ho segnalato nelle lettere programmatiche trasmesse a tutti gli iscritti: in una situazione che è allarmante, si apre un grande spazio per l’iniziativa politica dell’Unione Camere penali. Non c’è altro soggetto che abbia la nostra credibilità per declinare in chiave liberale i temi della giustizia. E perciò abbiamo un dovere: essere aggregatori di tutte le forze politiche, parlamentari, associative che si riconoscono nelle nostre idee.
Il primo nodo riguarderà la prescrizione, che il guardasigilli punta a sospendere dopo il primo grado. Se fosse presidente dell’Ucpi invierebbe un dossier o assumerebbe altre iniziative?
Assumerei tutte le iniziative possibili affinché l’opinione pubblica, e innanzitutto il ministro della Giustizia, si trovino costretti a rispondere su un dato di fatto: ossia su quel 72 per cento di prescrizioni che vengono dichiarate nel corso delle indagini preliminari. Chiederemmo a Bonafede perché non si interviene su questo, anziché affossare definitivamente il principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Chiederemmo inoltre di ragionare su un principio di realtà noto non solo a noi avvocati ma innanzitutto ai magistrati: è proprio la prescrizione a sollecitare la fissazione delle udienze, dei processi. A imporre un ritmo nella definizione dei carichi. Se non ci fosse più un simile spauracchio, i carichi per gli uffici giudiziari sarebbero molto più leggeri, tutta la macchina procederebbe con lentezza e le la durata dei procedimenti si allungherebbe a dismisura, È sorpreso dalla svolta dell’Anm, che dopo la sintonia con l’Ucpi sulle intercettazioni è arrivata a proporre la reformatio in peius nel processo d’appello?
Il nuovo presidente Minisci ha compiuto una scelta politica di cui risponde, una scelta che va in una direzione chiaramente ostile alle nostre posizioni, con la quale ha ritenuto di mettere a frutto la probabile valutazione positiva che, sul quella proposta, avrebbe fatto il governo. Tra l’altro, mentre sulla prescrizione sospesa dopo il primo grado c’è una storica e ampia condivisione nell’Anm, l’abolizione del divieto di reformatio in peius non appartiene alla riflessione consolidata dei magistrati. Si tratta di un tema chiaramente davighiano: evidentemente il dottor Minisci si porta dietro qualche tossina dall’esperienza nella giunta Anm presieduta appunto da Davigo.
Sulle intercettazioni sono tutti d’accordo: via il divieto di trascrizione. Ma allora come si tutela la privacy di chi non è neppure indagato?
Guardi che è proprio sbagliata l’idea di tutelare la privacy, cioè di scongiurare il rischio di veder diffuse le intercettazioni, con una materiale riduzione delle occasioni di disponibilità. Non è così che si risolve il problema, ma con l’accertamento di responsabilità anche disciplinari nei confronti del magistrato che ha la competenza sul fascicolo delle indagini. E quando si verifica che brani di intercettazioni finiscono sui giornali in una fase in cui quelle comunicazioni non sono neppure mai state richiamate in una richiesta del pm, vanno aperti procedimenti penali. La strada è questa, non è in cervellotiche limitazioni nell’accesso agli atti per il difensore.
Sulla necessità di contrastare il processo mediatico, il ministro Bonafede ha assicurato di volersi impegnare. Ma intercettazioni a parte, su cos’altro si può fare leva?
Prima di tutto si vieti alle Procure e alla polizia giudiziaria di tenere conferenze stampa in cui si rendono pubblici aspetti dell’inchiesta al fine di rafforzare la presunta validità indiziaria degli elementi raccolti. Si tratta di una pratica sconosciuta nella maggioranza dei Paesi civili, dagli Usa al Regno unito: da noi abbiamo addirittura i filmati con lo stemma del Corpo di polizia che ha condotto le operazioni. Io credo si debba intervenire su questa distorsione, dunque a monte, perché resto convinto che se un giornalista ha una notizia è naturale che la pubblichi. Il punto è che quel tipo di notizie non dovrebbe arrivare al giornalista. Oltre a vietare le conferenze stampa, va individuato un responsabile del fascicolo e soprattutto qualcuno deve spiegare perché non si fanno indagini sulle fughe di notizie. Vedo che anche il Csm si pone il problema e ipotizza uffici stampa nelle Procure: se servono ad asciugare al massimo le informazioni date all’esterno, ben vengano. Se invece devono dare solo un vestito rispettabile alla pratica di diffondere notizie per rafforzare le ipotesi investigative, non se ne parla neppure.