«È una cosa enorme. Che mi mette in difficoltà anche sul piano professionale. Basta guardare all’attenzione dedicata dai giornali alla nostra astensione: mai visto nulla di simile in 25 anni. È una fatica, a cui però non possiamo sottrarci».

Nemmeno venti giorni: tanto è durato il rodaggio di Gian Domenico Caiazza. Eletto il 21 ottobre scorso a Sorrento presidente dell’Unione Camere penali italiane, dopo meno di tre settimane si è trovato nel vortice della più grande crisi politica mai scatenatasi sulla giustizia dalla discesa in campo di Berlusconi. Forse nemmeno il decreto Biondi aveva avuto, per la maggioranza di allora, un potenziale distruttivo pari a quello sprigionato ora dalla prescrizione. E certo allora sui penalisti non si rivolse l’attenzione data ai quattro i giorni di assenza dalle udienze appena proclamati da Caiazza.

Come fa, si sdoppia?

È una fatica, è un’impresa, ma lo avevo detto nel mio discorso pro- grammatico al congresso di Sorrento: l’Ucpi non è semplicemente una associazione forense, è un soggetto politico. Perché? Semplice: ci occupiamo di temi che incrociano i diritti dei nostri assistiti e che nello stesso tempo sono questioni politiche pure, diventate centrali.

E sguarnite: perché i vecchi partiti in Parlamento si sgretolano.

È l’altra enorme difficoltà. In Parlamento non ci sono più sponde. C’è una maggioranza, orientata purtroppo da una cultura vendicativa del processo penale, e priva di una vera opposizione. Ci sono alcuni singoli parlamentari, certo. Li conosciamo di persona: in Forza Italia per esempio, Sisto e Costa, ma li contiamo sulle dita di una mano.

In questo contesto è plausibile che avvocati e magistrati siano protagonisti del confronto, come auspica e chiede il presidente del Cnf Mascherin?

Dico di più: il protagonismo di noi avvocati e dei magistrati, nel dibattito sulla giustizia penale, è già in atto. È in tempo reale. Apro una parentesi: io credo che sarebbe positivo un tavolo a cui confrontarsi. Ma mi chiedo: è possibile fare una grande riforma del processo in un anno? Giovanni Maria Flick ha opportunamente ricordato che solo per portare a termine la riforma del giudice monocratico impiegò 5 anni. E parliamo di una delle migliori menti giuridiche del Paese.

Però è giusto presumere che davvero la prescrizione entri in vigore solo dopo e solo se prima sarà varata una riforma complessiva: lungo tale percorso, cosa si aspetta dalla magistratura? La refomatio in peius che piace a Davigo o i tempi di fase inderogabili nel processo condivisi da Canzio?

Mi pare che la magistratura sia attraversata anche da divisioni. Però registro alcuni dati di fatto. Nei dibattiti in cui ci siamo confrontati nelle ultime ore, il presidente di Magistratura democratica Riccardo De Vito, per esempio, ha dimostrato di essere su posizioni sostanzialmente analoghe alle nostre, sulla prescrizione. A Radio Rai mi sono incrociato con il presidente dell’Anm Francesco Minisci: non gli ho sentito affatto invocare la reformatio in peius ma dire innanzitutto che non si può rifare il processo a partire dalla coda, cioè dalla prescrizione, e che serve per esempio un forte ricorso ai riti alternativi. Idea giusta, da condividere. Ma in netta controtendenza rispetto alle scelte dell’attuale maggioranza. Che ha appena eliminato il rito abbreviato per i reati da ergastolo. E sa perché?

Lo dica.

In ossequio a quell’idea vendicativa del processo appena ricordata. Non concepisce di scambiare uno sconto di pena con un risparmio di almeno 9 anni sulla durata del procedimento. Non è nella cultura di questi signori. Sono oppressi dall’impulso di dover rispondere alla platea digitale che subito urlerebbe all’infamia di un imputato condannato ad appena 23 anni anziché a stare in galera fino alla morte. Ma sulla posizione della magistratura un dubbio ce l’ho.

Quale?

Riguarda il fallimento dell’udienza preliminare. Sono pronti a riconoscerlo? Dopo 30 anni dal varo del modello accusatorio, dopo il tentativo di riforma del 2000, è chiaro come l’udienza preliminare sia fallita. Non è mai diventata il filtro che dovrebbe mandare a dibattimento solo i casi per i quali è necessario.

È per il timore dei giudici di litigare coi pm?

Temo sia così: è per la mancanza di una cultura terza del giudice. Direte: ma allora voi siete fissati con la separazione delle carriere? E sì: l’aspetto appena considerato è una prova scientifica di quanto quella riforma sia necessaria. Ora, io credo che siano questi i nodi su cui ragionare. Se invece l’attuale maggioranza vuole coltivare l’illusione che con qualche cancelliere in più i processi saranno fulminei, impiegherà poco a capire che non può essere così.

Mai si era sfiorata una crisi di governo sulla prescrizione: l’impatto dello scontro sulla giustizia può scuotere gli italiani dall’ipnosi giustizialista?

È quanto vedo già avvenire in queste ore. Non vorrei scivolare in facili trionfalismi. Ma a me pare che l’argomento prescrizione sia un clamoroso autogol, per il giustizialismo. È un tema chiaro, comprensibile: le persone capiscono che si rischia di restare sotto processo per tutta la vita, riflettono su cosa voglia dire vedere i propri beni messi per anni sotto sequestro. È come per la separazione delle carriere: pare una disputa dottrinale, invece tutti comprendono di cosa si tratti. L’argomento opposto da chi propone il blocco della prescrizione è liquidarla come lo strumento dei ricchi per sfangarsela. È l’unico che hanno, ma è debolissimo: perché ci vuol poco a far capire alle persone che noi avvocati non abbiamo alcuna possibilità di dilatare i tempi, e che la prescrizione non può essere confusa con la lunghezza irragionevole dei processi.

La bolla giustizialista che esplode come la bolla speculativa di fine anni Novanta in America...

Il giustizialismo è minoranza almeno nella comunità dei giuristi. Anche tra i magistrati. I cosiddetti giustizialisti della politica hanno alle loro spalle Davigo, Ardita, Di Matteo. Figure dalla storia professionale importante e che vanno rispettate, come magistrati. Ma sul piano dottrinario sono assolutamente isolati. Io sfido a scovare un solo docente universitario disposto a condividere per esempio la tesi di Davigo secondo cui non vale la pena ascoltare un testimone in dibattimento perché tanto ha già reso dichiarazioni al pubblico ufficiale. È ovvio, è indiscutibile che noi avvocati e i magistrati, la maggioranza dei magistrati che non condivide quelle visioni estreme, siamo diventati centrali. Si sente parlare di giustizia solo per slogan. E allora i giornali, ma gli italiani in generale, ogni giorno di più dicono: sentiamo cosa dice chi davvero sa di che parla, quando è inter- pellato sulla giustizia.