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Più leggo stralci delle 5.253 pagine della sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Palermo sulla presunta trattativa Stato- mafia - se mai troverò il tempo e la voglia di leggerle tutte, magari nelle modalità di stampa annunciate dal Fatto Quotidiano - e più ne diffido.
Mi ha colpito, per esempio, un inciso sull’avvicendamento al Viminale, nell’estate del 1992, fra i democristiani Vincenzo Scotti e Nicola Mancino con la formazione del primo governo del socialista Giuliano Amato.
In quell’avvicendamento, lamentando in particolare “l’assenza di pubbliche e plausibili spiegazioni” della mancata conferma di Scotti a ministro dell’Interno dopo la sua “azione di contrasto contro le mafie”, la sentenza ha indicato un sostanziale “segnale” di disponibilità alla trattativa dopo la strage di Capaci. Dove erano stati uccisi Giovanni Falcone, la moglie e quasi tutti gli uomini della scorta. Un segnale prezioso - avverte la sentenza - per fare prendere sul serio dal capo della mafia Totò Riina gli approcci tentati dall’allora colonnello Mario Mori e altri ufficiali dell’Arma dei Carabinieri attraverso l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino.
Ma le “spiegazioni” della mancata conferma di Scotti al Viminale erano notissime già all’epoca del fatto. Non retroscena ma cronache politiche vere e proprie raccontarono nel mese di giugno del 1992 dello sconcerto che lo stesso Scotti e l’allora guardasigilli socialista Claudio Martelli provocarono nei segretari dei loro partiti, Arnaldo Forlani e Bettino Craxi, per un incontro avuto al Quirinale con l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il quale li convocò per essere informato di alcuni provvedimenti legislativi in cantiere dopo la strage di Capaci ma colse l’occasione, diciamo così, anche per parlare con loro della formazione del nuovo governo: il primo della legislatura uscita dalle urne del 5 aprile di quell’anno.
Preoccupato per la precarietà della situazione politica, aggravata dai contraccolpi dell’inchiesta giudiziaria milanese su Tangentopoli e dal clima di emergenza creatosi con l’attentato di Capaci, clima in cui era maturata anche la sua elezione al Quirinale, Scalfaro aspirava alla formazione di un governo di tregua, magari capace di guadagnarsi l’astensione o la benevola opposizione dei comunisti. E si lasciò andare a immaginare uno scenario in cui i suoi due interlocutori, muovendosi all’uopo all’interno dei loro partiti, potessero scambiarsi i ruoli di presidente e vice presidente del Consiglio.
Marco Pannella, allora in eccel- lenti rapporti con Scalfaro, informò dell’udienza quirinalizia e dei suoi contenuti Bettino Craxi, che a sua volta ne riferì ad Arnaldo Forlani. Entrambi non gradirono per niente, ciascuno nel suo stile. Craxi, che ancora aspirava a fare lui il presidente del Consiglio, imprecò contro il “tradimento” di Martelli e Forlani aprì alla richiesta della sinistra del suo partito di riservarle nel nuovo governo un Ministero di grande peso, come quello dell’Interno, da destinare al loro uomo di punta in quel momento, che era il capogruppo del Senato Nicola Mancino.
Quando si arrivò all’incarico a Giuliano Amato - con la forzata rinuncia di Craxi all’ambizione di tornare a Palazzo Chigi, non avendo il capo della Procura di Milano escluso in un incontro irrituale con Scalfaro un suo coinvolgimento nell’indagine famosa come “Mani pulite” - le trattative concrete per la lista dei ministri presero una piega a dir poco scontata. Scotti finì alla Farnesina e Mancino al Viminale.
Martelli riuscì a rimanere al ministero della Giustizia con una telefonata di chiarimento a Craxi, cui chiese di poter continuare in via Arenula “il lavoro cominciato con Giovanni”, cioè Falcone, da lui nominato direttore degli affari penali nei mesi precedenti: lavoro drammaticamente interrotto a Capaci.
Scotti non protestò per la sua nuova destinazione ma per la incompatibilità fra cariche di governo e mandato parlamentare introdotta da Forlani all’interno della Dc come segnale di cambiamento. Egli preferì restare deputato - con le relative e ancora intatte immunità, dissero i malevoli - piuttosto che fare il ministro degli Esteri. Martelli rimase al ministero della Giustizia sino al 10 febbraio del 1993, quando si dimise per un avviso di garanzia ricevuto dalla Procura di Milano. Che lo coinvolse in Tangentopoli non credo proprio per allontanarlo da via Arenula allo scopo di mandare a Totò Riina un altro “segnale” favorevole alla trattativa, per seguire la logica applicata nella sentenza di Palermo alla partenza di Scotti dal Viminale. Con quella logica qualcuno potrebbe vedere un “segnale” favorevole alla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia persino nella sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1993 in materia di carcere duro. Ad essa si attenne in autunno per non rinnovare il trattamento speciale a 334 detenuti di mafia il guardasigilli Giovanni Conso, presidente emerito della stessa Corte, subentrato a Martelli in via Arenula e confermato nel governo di Carlo Azeglio Ciampi.
Quella decisione non portò Conso sul banco degli imputati solo perché i pubblici ministeri avrebbero dovuto passare la pratica ad altri uffici: quelli del tribunale dei ministri, con le procedure previste dalla legge, comprensive di un coinvolgimento del Senato. Essa tuttavia è incorsa nelle critiche dei giudici della Corte d’Assise di Palermo per la “speranzella”, coltivata tanto in buona fede da Conso da esprimerla pubblicamente, che l’allentamento delle tensioni nelle carceri potesse produrre anche un cambiamento nell’organizzazione mafiosa. Che continuava a eseguire e progettare attentati anche dopo la cattura di Totò Riina, avvenuta il 15 gennaio 1993.
Da sola, peraltro, quella cattura poteva o doveva smentire il sospetto di una tresca, penalmente tradotta poi nel reato di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario, per assecondare l’organizzzazione criminale guidata da u curtu in latitanza dal lontano 1969.