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Tra una polemica e l’altra sulla legge elettorale si avvicina la data del referendum sul taglio dei parlamentari, che per il costituzionalista Francesco Clementi è «decisivo».
Professor Clementi, a cosa andiamo incontro?
Innanzitutto bisogna spiegare che quelli non sono soltanto numeri, in quanto su di essi si basa tutta l’impalcatura della Parte Seconda della Costituzione: dai quorum di voto, all’organizzazione delle Camere, all’elezione del Capo dello Stato. Poi, bisogna sfatare tre pregiudizi, cioè che non si tratta di votare per risparmiare perché, secondo i calcoli di Carlo Cottarelli, si tratterebbe dello 0,0007% della spesa pubblica; che modificare il numero dei parlamentari significa toccare la democrazia, perché invece fino al 1963 non era previsto il numero dei parlamentari in Costituzione; infine, che la sola riduzione del numero porterà ad un miglioramento qualitativo della nostra democrazia: è falso, perchè non sempre numerosità vuol dire qualità.
Sfatati questi tabù, quali sono i rischi dell’approvazione del taglio dei parlamentari senza un cambiamento di legge elettorale?
Senza altre riforme costituzionali, dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale, nonostante io sia sempre stato favorevole ad una riduzione del numero dei parlamentari in ragione di una diversa ristrutturazione del bicameralismo ( in modo tale da favorire anche una rappresentanza di tipo territoriale), questo testo, da solo, si espone a forti critiche, a partire dal fatto che l’assenza di una modifica dell’art. 57 della Costituzione, stante l’attuale legge elettorale, privilegerebbe le aree più popolate rispetto a quelle interne, incentivando pure l’astensionismo, posto che meno la politica entra nella vita delle persone, meno queste sono interessate a partecipare alla vita pubblica.
Quindi è più importante la legge elettorale che il risultato del referendum?
No, perché non basta la sola legge elettorale. Servono riforme sistemiche, coerenti ed omogenee. Non “micro”, come quella di cui stiamo discutendo perché tutto è legato come in un dòmino. In questo senso, siamo, dentro un dilemma: se vince il “no”, rischiamo di non avere più alcuna riforma, che invece è necessaria per dare equilibrio e semplicità decisionale al Paese, a partire dalla riforma del bicameralismo; se vince il “sì”, la politica è sì costretta a fare importanti riforme costituzionali, ma non è detto che riesca a farlo con l’adeguatezza necessaria. Eppure, c’è un dato: sono decenni che diciamo che 945 parlamentari che fanno la stessa cosa tra Camera e Senato sono un’anomalia che va affrontata per portare anche una rappresentanza territoriale in Parlamento. Questo voto è una miccia, da maneggiare con attenzione e consapevolezza.
Lei cosa voterà?
Non ho ancora deciso, ma sono sicuro che in entrambi i casi la legge elettorale dovrà cambiare. Certo, se dovesse vincere il “no” la politica si prenderebbe tutto il tempo per farlo, mentre con la vittoria del “sì” probabilmente ci sarebbe a breve qualche scossone utile per provvedimenti che già giacciono in Parlamento: da una riduzione dell’età per l’eleggibilità a deputato e senatore, che consentirà l’allargamento della rappresentanza politica, ad una riforma dell’articolo 57 della Costituzione riguardo al Senato, che non potrà più essere eletto su base regionale ma circoscrizionale. Due fatti positivi.
Una nuova legge elettorale dovrebbe essere basata sul sistema proporzionale o su quello maggioritario?
Dipende se i partiti si vogliono vincolare, prima del voto, ad alleanze per la formazione del governo. Registro che i partiti oggi preferiscono “tenersi le mani libere” dopo il voto, cioè non fare alleanze preventive; non è un caso che, nella medesima legislatura, abbiamo avuto due opposte coalizioni di governo, pur con lo stesso presidente del Consiglio. Un’anomalia difficile da spiegare almeno per me, se, appunto, si vuole che il voto degli elettori nella formazione del governo conti più degli accordi, post elettorali, tra i partiti in Parlamento. Per questo, al netto di una mia personale preferenza per un maggioritario a doppio turno, può essere utile una legge proporzionale con premio majority assuring che non porti comunque i vincitori oltre il 55% dei seggi, ossia lontani dai due terzi per modificare la Costituzione senza possibilità di ricorrere a referendum.
Come si è arrivati politicamente a questa situazione intricata?
Il grave errore politico è stato quello di immaginare che fosse possibile fare una riforma costituzionale in maniera “micro”, senza affrontare la Costituzione come organismo complesso, anche se parte della dottrina in occasione del referendum 2016 ha sostenuto il contrario e ha dato questo significato a quell'esito di vittoria del No. Serviva invece una riforma “macro”. Questa invece arriva al referendum, da sola, senza un progetto organico che tenga conto della complessità della Costituzione.
Il Paese si sta preparando in maniera adeguata al voto del 20 e 21 settembre?
Non mi pare. Stiamo andando, se posso, un po’ “alla carlona”, dentro un silenzio ipocrita, verso una delle più grandi riforme costituzionali che questo Paese possa fare. I partiti si devono dichiarare, con responsabilità, senza lasciare libertà di scelta. Qui non c’è coscienza, ma responsabilità: si tratta di un voto politico e come tale deve essere pensato.