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Dovremmo dedicarla a loro. Dovremmo dedicare ai più piccoli il 2 giugno 2020. Qualche mese fa, solo poco prima che il mondo si misurasse con l’emergenza Covid 19, ero all’Unesco e mi hanno raccontato una storia. Ed era una bella storia.
Ci sono dei bambini in questa storia, non hanno una scuola. No, peggio: non sono contornati da persone che pensano che dovrebbero avere una scuola. E di certo quei bambini non possono proprio permetterselo il lusso di pensarci alla scuola. Hanno altro a cui pensare, ci sono sempre emergenze, ci sono sempre ottime ragioni per non pensare al tempo futuro quando ci sono delle emergenze.
Poi ci sono donne e uomini delle istituzioni in questa storia, una di queste, L. A. ci mette il coraggio dell’iniziativa. Decidono di dedicare del tempo, del tempo e della forza, quella gentile, che viene dal sentimento della res publica, che è poi ciò che siamo tutti.
Vanno nelle favelas, prendono uno spazio abbandonato in gestione, e poi lo affidano ai bambini. Fanno un gesto semplice. Aprono e affidano. Non sarà un caso che nella parola affidare ci sia la radice etimologica della fiducia.
Comunque aprono e affidano. E insieme, bambini e adulti, costruiscono uno spazio comune – che è una cosa diversa dalla somma di metri quadrati – e costruiscono una struttura cognitiva ed emotiva – che è diversa da una forma obbligatoria di rispetto delle regole – è il pensiero che darsi delle regole è un atto di libertà.
Solo dopo avere costruito uno spazio comune dove vigono regole comuni – per chi c’è e per chi ci sarà – danno un nome: la chiamano scuola. E insegnano ai bambini a scrivere le regole di quello spazio comune: scriverle con pochi supporti, quasi immateriali, perché il supporto più durevole delle regole è la mente delle persone.
Sono i bambini ad occuparsi di conservare lo spazio comune, di fare si che ciascuno constribuisca al mantenimento di quello spazio.
In questa storia sono i bambini a fare la costituzione della loro scuola. Una costituzione semplice, vera, come quella che i bimbi si sanno dare. Nella loro pura e allo stesso tempo potentissima intelligenza. La hanno chiamata la Costituzione per la scuola di tutti.
Questa storia non è una favola. È vera.
Nel 1946 le cittadine e i cittadini italiani hanno scelto la forma repubblicana per lo Stato.
Dopo meno di due anni quella forma è stata ancorata ad un atto fondativo costituzionale. Non è stato fatto per ognuno, è stato fatto per tutti.
Tutti coloro che sarebbero venuti dopo. Perché nessuno si metterebbe a sottoscrivere una Costituzione pensando solo sé: ci sono articoli di cui forse mai individualmente si toccherà con mano la concretissima conseguenza, ma che non si vorrebbe proprio lasciare andare.
Perché la Costituzione della cosa pubblica serve proprio a fare si che se mai, e dico mai, si dovesse vivere una violazione di un diritto, ci sarà uno strumento istituzionale che senza discriminazione, sancirà il limite da non superare.
Forse molte individuali vite non avranno mai la sventura di doversi avvalere di quei dispositivi.
Che se pensati individualmente appaiono poca cosa, forse, ma se ci mettiamo a pensare come quei bambini che per assicurarsi che nessuno venga nella loro scuola e impediscano loro di esserci e crescere, si dotano di una costituzione, allora cambia tutto.
La Repubblica italiana è un ideale, ed è una energia, che sta fra le dita delle persone e negli occhi dei nostri bambini.
La festa della Repubblica quest’anno la dovremmo dedicare a loro. A loro che hanno guardato dalle finestre i parchi senza poterci giocare e che hanno custodito in questi giorni lunghissimi quell’ideale e quella energia.
La dovremmo dedicare ai bambini di cui ci siamo poco occupati – non dico dimenticati – e quando lo abbiamo fatto, lo abbiamo fatto in via residuale.
Facciamo in via prioritaria. Perché la res publica già vibra sulla punta delle loro dita prima ancora che sappiano scrivere il loro nome.