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*Servizio video di Nicola Campagnani e Lorenzo Tardioli, collettivo Lorem Ipsum
“No Cap” sta per “no al caporalato”. Roberto Sensi ha pedalato fino a Foggia per incontrare l’attivista Marianna Carusillo e parlare di migranti e sfruttamento. Scontano un pregiudizio che li considera alla stregua di criminali, ma molti braccianti agricoli stranieri sono spesso le vittime di condizioni lavorative estreme, al limite dello schiavismo. L’associazione “No Cap” da anni cerca di combattere questa realtà. «Dovremmo abbandonare certi pregiudizi - spiega Carusillo - e al contempo essere più giudiziosi ad esempio quando facciamo la spesa. Lo sfruttamento si combatte anche con le scelte giuste al supermercato».
“Portano le malattie”, “rubano”, “spacciano”. La lista dei pregiudizi verso i migranti è lunga.
I pregiudizi sono, come ben sappiamo, il frutto di stereotipi che raccontano solo una piccolissima fetta della realtà, del visibile. Quelli sugli stranieri, riguardano soprattutto persone che vengono da Paesi terzi. Tra i discorsi più diffusi c’è l’idea che “rubino il lavoro agli italiani”, per dirne una. Anche il discorso politico spesso fomenta e perpetua questa narrazione. La verità però è ben altra: i lavoratori stranieri, assunti sia regolarmente che irregolarmente, sono perlopiù “forzati” a svolgere mansioni particolarmente faticose, in cui sono ampiamente sottopagati e c’è una carenza o totale assenza di tutele e diritti.
Parliamo sostanzialmente di lavoratori sfruttati. Quali sono le loro condizioni?
La manodopera agricola straniera è un elemento strutturale del settore agricolo italiano: secondo i dati della Confederazione italiana agricoltori del 2019, era pari al 40% del totale. Come lavorano? Spesso in condizioni di sfruttamento, se non di paraschiavismo, e percepiscono salari inferiori anche del 50% rispetto alla media nazionale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Placido- Rizzotto sono circa 180mila i lavoratori più vulnerabili e soggetti a caporalato. Sia uomini che donne: queste ultime sono molto meno visibili, sia nei campi che nella narrazione del fenomeno dello sfruttamento. E sulle loro spalle grava anche il peso delle discriminazioni di genere. Le donne, sia italiane che straniere, percepiscono un salario inferiore del 20- 30% circa rispetto alla controparte maschile a parità di mansioni svolte e vengono spesso “controllate” anche attraverso forme di violenza di genere, perfino sessuale.
Che cos’è il caporalato?
Il caporalato consiste nella intermediazione illecita di manodopera e grave sfruttamento lavorativo, operata in primo luogo dai caporali e a partire dal 2016, con la legge 199/ 2016, anche dai datori di lavoro. La legge infatti recita che “è punito chiunque recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori; e utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione, sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Ciò include, ad esempio, anche l’organizzazione dei furgoni al cui interno viaggiano più di 10 lavoratori, in assenza di sicurezza e che, in alcuni casi, hanno perso la propria vita durante il viaggio verso casa dal lavoro.
Tornarsene in patria, accettare paghe da fame o sopravvivere con attività irregolari. Sembrano le uniche alternative per un migrante che arriva in Italia. Cos’è che non funziona?
Evidentemente il sistema. A partire dai decreti flussi, all’accesso del mondo del lavoro, al sistema di accoglienza che ha - nonostante molte best practice - dei limiti, alla burocrazia che con i suoi lunghi tempi di attesa rallenta il rilascio dei permessi di soggiorno. Probabilmente se fosse possibile riconoscere alle persone immigrate che vengono da Paesi terzi dei permessi per ricerca lavoro, la situazione sarebbe più gestibile. Ma paghe da fame e attività irregolari non sarebbero le uniche alternative: lo diventano quando si viene tagliati completamente fuori dalla società, quando non hai accesso alle cure, quando sei costretto a vivere nei cosiddetti ghetti in condizioni disumane, quando pur volendo uscire da queste situazioni, non riesci a trovare una casa perché non ci sono politiche abitative che funzionino, la lista è lunga. Ma ciò che mi preme sottolineare è che un’alternativa c’è sempre. Anche scegliere di non lavorare più a 3- 4 euro l’ora o a cassone è una scelta, per quanto possa sembrare difficile.
“Prima gli italiani”: c’è una fascia di lavoratori che contesta gli aiuti verso queste categorie, lamentando anzitutto la propria condizione precaria. Una guerra tra poveri che sembra aver cancellato la solidarietà tra lavoratori, l’unione contro il potere. Perché? Come è successo?
Perché probabilmente ognuno, afflitto dalla precarietà non solo lavorativa, si sente solo e abbandonato dalle istituzioni. Gli strumenti messi in campo non sono del tutto efficaci. E se la prende con chi sta peggio, con l’illusione che questo sia più aiutato, sostenuto. È successo di pari passo con i grandi cambiamenti mondiali, sia economici che sociali: la gente comune non ne ha colto la portata fino a che non ha provato sulla propria pelle le conseguenze delle delocalizzazioni, per dirne una. E le stesse migrazioni, oltre a essere spesso il frutto di una scelta individuale, sono anche forzate proprio da questi cambiamenti.
Il lavoro delle associazioni sul territorio è straordinario, ma evidenzia anche l’assenza dello Stato nell’occuparsi di certi problemi?
Molte associazioni e cooperative si occupano nel loro piccolo di portare un cambiamento. No Cap in questo senso favorisce la fuoriuscita degli immigrati dai ghetti, l’assunzione degli stessi presso aziende agricole “illuminate”, se vogliamo, l’inserimento abitativo in strutture dignitose. I prodotti etici a marchio No Cap vengono venduti al giusto prezzo nei supermercati che hanno aderito ai principi dell’Associazione. Un altro mondo è possibile e richiede lo sforzo di tutti. Anche dello Stato, appunto, che deve intervenire strutturalmente per far sì che i lavoratori e le stesse aziende agricole, non siano sfruttati e sottopagati.
Cosa si dovrebbe fare secondo Lei per risolvere questa situazione?
Quello che possiamo fare è continuare a parlarne, informarci e informare. Quando entriamo in un supermercato, iniziamo a chiederci “questi pomodorini, broccoli, carciofi, sono stati raccolti da persone che sono state pagate secondo legge? La cui dignità non è stata calpestata?”. Di solito, più basso è il prezzo, più è alta la probabilità che quanto appena descritto non sia avvenuto. Dobbiamo prendere consapevolezza, anche attraverso ciò che acquistiamo e fare anche noi una scelta: quella di non alimentare lo sfruttamento.