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unsal carcere
Che cosa è cambiato per l’avvocatura turca dopo la morte di Ebru Timtik? Tutto, ma in peggio. Dopo l’approvazione della legge di riforma degli ordini forensi, che prevede la possibilità di crearne più di uno per ogni grande centro urbano, ora pare che ci si avvii verso la chiusura dei più grandi e ribelli, quelli di Ankara, Izmir e Diyarbakir, i cui vertici sono indagati per aver criticato un discorso d'odio contro gli omosessuali, pronunciato dal capo della direzione degli affari religiosi.
L’indagine per “insulto ai valori religiosi di una parte della popolazione”, in caso di condanna, potrebbe proprio portare allo scioglimento di questi organi indipendenti di rappresentanza dell’avvocatura. Ciò renderebbe più facile l’esclusione dalla professione dei singoli avvocati ribelli. Quelli vivi, perché la scelta prioritaria è lasciarli crepare in carcere. E quando dico così non so se mi riferisco a Ebru Timtik o a Metin Yücel, collega morto pochi giorni orsono di covid, contratto nel carcere di Düzce, dove si trovava da Ottobre 2016. O forse mi riferisco alla prossima vittima (che Dio non voglia!), il nostro amato collega Aytaç Ünsal, che, dopo 213 giorni di digiuno insieme ad Ebru, è stato rilasciato per cure mediche a pochi passi dalla morte. A meno di tre mesi dall’inizio delle terapie intensive per tornare ad una vita normale, dopo che già la sua abitazione era stata perquisita a novembre, è stato arrestato a favore di telecamere e con un uso sproporzionato della violenza il 9 dicembre scorso. Da allora si trova nel carcere di tipo F di Edirne. Al suo ingresso è stato sottoposto ad ispezione corporale anche interna, e poi è stato posto in isolamento, dove si trova ad oggi.
Tanto il giudice dell’esecuzione quanto l’Alta Corte penale di Istanbul, in appello, hanno negato la sua scarcerazione. Gli è vietato incontrare i suoi difensori dal 14 dicembre, può solo vedere sua madre, ex giudice ed avvocata. Gli è vietato di continuare il suo trattamento, di prendere le medicine necessarie alla cura della sua neuropatia. Sta perdendo velocemente peso. Prova sempre maggiori dolori, è a rischio embolia.
Ma a chi interessa della sua vita? Le sue condizioni di salute e la loro (certificata) incompatibilità col regime di detenzione saranno mai state tra gli argomenti della chiamata tra il Presidente Conte ( si ricorderà di essere stato anche lui avvocato?) e il dittatore turco?
Seguendo l’insegnamento di Liliana Segre, noi che indossiamo la toga, non odiamo, ma mai perdoneremo e mai dimenticheremo e faremo dimenticare il trattamento riservato ai nostri colleghi in Turchia. Le violazioni dei diritti umani perpetrate nell’era Erdogan resteranno incise nella pietra del libro nero della storia dell’umanità. E ovviamente non c’è minaccia che possa fermare la nostra solidarietà nei confronti delle colleghe e dei colleghi detenuti in Turchia, non solo in occasione della ricorrenza del 24 gennaio.
* Avvocata, componente della Commissione Diritti Umani dell'Ordine degli Avvocati di Bologna