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Durante la prima guerra mondiale esisteva un luogo, posto a metà tra le due trincee contrapposte, chiamato “terra di nessuno”. Era una sottile linea di “confine” dove a volte i soldati, esausti di morte e privazioni, rimanevano come in un tempo sospeso, aspettando che ricominciassero gli assalti.
Ora si combatte un’altra guerra, quella di chi fugge dai propri paesi e cerca rifugio. Anche questi uomini, donne, bambini, aspettano qualche cosa; di rimettersi in cammino, di evitare le deportazioni o semplicemente aspettano un pasto e una coperta. Uno di questi luoghi si trova sulle rive dell’Isonzo, un altro confine, tra Italia e Slovenia. Proprio lì dove vennero combattute tra le più cruente battaglie del conflitto ’ 15-’ 18, si trova quella che da qualche anno viene chiamata “jungle”. Non è un posto popolato da animali feroci ma da migranti, richiedenti asilo accampati in attesa delle decisioni della commissione territoriale. Decine di persone che non trovano posto nel sistema di accoglienza (Hub o Centri di accoglienza straordinaria) e che devono provvedere alla loro sussistenza, cucinando con bracieri di fortuna, riparandosi alla meglio e a rischio di esondazione del fiume nei mesi invernali.
Secondo le convenzioni internazionali avrebbero diritto a una sistemazione degna, non si tratta dunque di fuorilegge.
Tra i pochi italiani che aiutano questi migranti c’è Mauro Chiarabba, un romano trapiantato in Friuli che si definisce «attivista volontario» e che ci racconta come vanno le cose da quelle parti. «Ho cominciato in maniera indipendente, perchè per me è giusto aiutare i rifugiati e chiunque si trovi in difficoltà a causa di questo sistema di frontiere chiuse».
Una posizione che, contrariamente a quanto sembri, sta diventando comune in Europa nonostante la marea xenofoba montante. «La “jungle”, almeno fino agli ultimi controlli di polizia e carabinieri che hanno allontanato e disperso molte persone, era un posto dove i migranti si radunavano per passare il tempo e mangiare. Col passare degli anni – racconta Chiarabba - è diventata la loro casa, con le proprie regole di autogestione. Tutti a Gorizia sanno che i rifugiati andavano li, non è un segreto per nessuno e quando dico tutti, dico tutti, parliamo di un posto lontano 10 minuti a piedi dalla stazione».
È una situazione cristallizzata nel tempo e affrontata solo come un problema di ordine pubblico. Pietismo o irredentismo straccione, atteggiamenti convenienti ad una lotta politica locale, con riflessi nazionali, che si combatte sulla pelle di questa gente ma che non mette al centro le vere cause e cioè il fallimento del sistema di accoglienza. «Ora con l’avvicinarsi delle elezioni comunali tutti dicono che la jungle si sta ripopolando a causa della primavera, come se i frequentatori ci andassero per svago e divertimento e nessuno dice che quello è l’unico posto che hanno per mangiare, perchè non ci sono alternative, o si cucinano li oppure non mangiano. Che nessuno li vuole vedere in giro per la città. Che durante tutti i 12 mesi dell’anno andavano li, sempre, tutti i giorni».
La prassi per un rifugiato è la seguente: va in questura per formalizzare la richiesta di asilo, viene mandato al dormitorio Caritas finchè non si libera un posto in una delle due strutture di accoglienza. Mentre è nel dormitorio deve provvedere da solo al cibo e a tutto il resto, l’attesa può durare anche due mesi. Se è fortunato entra in accoglienza altrimenti «viene caricato su qualche pullman e trasferito come un pacco in un altro luogo d’Italia. Non c’è una regola precisa su queste “deportazioni”, quello che vedo è che quando arrivano a circa 100 persone il Comune sollecita la Prefettura ed arriva il pullman che penso ti carichi senza molto preavviso. Quindi in jungle c’è sempre un ricambio continuo di gente con gli stessi problemi primari, cibo, scarpe, vestiti».
Il numero di persone è sempre variabile, questo perché nonostante la rotta balcanica sia stata sigillata, qualcuno riesce a passare, a scavalcare i tanti muri che si stanno costruendo. Poi ci sono quelli che tornano indietro dalla Germania, diventata molto più restrittiva, dal Nord Europa o da altre parti d’Italia. «I numeri reali li sa solo la Prefettura, io so di quelli che vanno in jungle e ora sono circa 60 per la maggior parte afghani e pakistani».
Su questa situazione come su altre, è calato il silenzio mediatico, a meno che non succeda qualche episodio grave, eppure ci dice Chiarabba «in jungle può capitare a volte di trovare gente che non mangia da giorni, oppure che polizia e carabinieri oltre che identificare e controllare distruggano qualche postazione, che ci vadano persone in abiti civili a rompergli i piatti, a minacciarli, a buttargli il cibo nel fiume, rimane la paura di questi ragazzi di denunciare gli abusi».
Una scelta difficile vivere nella “jungle” ma che non sembra abbia alternative viste le risposte dello Stato con decreti come quello Minniti, un provvedimento che potrebbe creare altre “jungle” e che non risolve nulla. La realtà cozza contro le dichiarazioni ufficiali, basti pensare sempre in Friuli Venezia Giulia, a Pordenone, dove 70 persone sono costrette a dormire per strada in un parcheggio sotterraneo chiamato il Bronx. Anche in questo caso sono richiedenti asilo ai quali si è aggiunta una famiglia pakistana, respinta dalla Germania che per protesta si è accampata sui gradini della Prefettura. «Anche qui si è alzato il muro delle istituzioni, la Croce Rossa locale porta un pasto serale e i volontari quello che riescono a rimediare. Spesso qualche migrante va in ospedale per le sue precarie condizioni». Dicono i volontari come Mauro Chiarabba che quello che si vive è un inferno senza fine: il mondo è in guerra e loro si trovano nelle retrovie.