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Conobbi Giuliano Vassalli quasi trent’anni fa all’Università “La Sapienza” di Roma dove, giovanissimo docente di diritto penale, partecipavo come uditore a un convegno sulla rieducazione della pena. Da allora, fino alla sua morte, quando mi recavo a Roma, lo andavo immancabilmente a trovare nella sua abitazione di Lungotevere dei Vallati, vicinissima proprio a quel Ministero della Giustizia che come ministro guidò rompendo i ponti con il passato e facendo segnare il passaggio dal sistema inquisitorio a quello accusatorio con il suo nuovo codice di procedura penale. Di lui ricordo la grande umiltà e il suo alto senso del dovere: da lui imparai il modo di intendere e svolgere la professione d’insegnante, facendosi comprendere dagli studenti e non gareggiando in magniloquenza. Da professore di diritto penale, praticò e approfondì il rapporto tra Costituzione e diritto penale e, da giudice costituzionale, perseguì la connessione del diritto penale ai valori della Carta Costituzionale. Un percorso accademico, professionale e di vita, esemplari: da partigiano, nella Resistenza da cui è nata la Costituzione, da giudice e presidente, nella difesa intransigente di quest’ultima alla Corte Costituzionale. La sua lunga vita propone una sorta di comunicazione tra l’eredità della grande scuola penalistica ottocentesca, con il suo impegno civile per la costruzione del nuovo Stato e del nuovo sistema penale dell’Italia unita, e il risveglio della scienza penale alle soglie dell’ultimo quarto del secolo scorso, tutta proiettata verso il costituzionalismo e verso gli orizzonti dei diritti dell’uomo e dell’internazionalizzazione del diritto penale. Le peculiarità del pensiero di Vassalli emergono nel modo più palese e compiuto nella sua concezione della pena: libera da apriorismi, eclettica e soprattutto storicistica. In contraddittorio, sempre cordiale e rispettoso, con il suo amico Giuseppe Bettiol, Vassalli attribuisce alla pena una pluralità di funzioni utilitaristiche di tutela della società e dei suoi consociati. Se finalisticamente la pena è dominata dall’idea fondante dell’utilità sociale, tuttavia, è innegabile che nella sua dimensione strumentale sia presente una dimensione etica dovuta alla natura retributiva e all’idea di giustizia cui quest’ultima rimanda. In questo senso Vassalli non è lontano dall’idea di pluridimensionalità della pena professata da Francesco Antolisei e poi da Antonio Pagliaro. Vassalli però pone l’accento su un nuovo aspetto funzionale, di grande modernità e anticipatore di elaborazioni successive ricche anche d’implicazioni pratiche: con il suo contenuto d’intensa punibilità sociale, presente già nel processo, la pena contribuisce alla riaffermazione del diritto violato dal reato. Non si tratta di un retaggio astrattamente idealistico e lo dimostrano le implicazioni e le conseguenze pratiche che Vassalli trae da questo elemento funzionale della pena, ben radicata nel diffuso sentire sociale. La concezione di Vassalli ha costantemente una portata storica e contiene lo sviluppo nel tempo e nel nostro ordinamento giuridico delle molteplici ideologie sulla pena. Vassalli non teme che il suo pensiero possa essere tacciato di un atteggiamento debole nei confronti della punizione quale è venuta storicamente conformandosi, perché secondo lui il vero compito del giurista non è quello di forzare ideologicamente la realtà bensì di estrarne la razionalità storica per sapere poi orientare l’evoluzione teorica e pratica del diritto alla concretezza. Proprio a tal proposito, mi piace ricordare un altro aspetto che rivela l’importanza della storia per il grande giurista. Secondo lui, non è possibile instaurare una sorta di corrispondenza biunivoca tra le diverse impostazioni ideologiche della pena e il carattere liberale o autoritario del regime politico che di volta in volta le fa proprie. In sostanza, vi sono ordinamenti che hanno fatto un uso liberale dell’ideologia retributiva, così come vi sono ordinamenti che l’hanno piegata in senso autoritario. La stessa analisi si può fare per le concezioni special preventive e rieducative della pena. La rieducazione, tanto solennemente affermata dall’art. 27 della Costituzione in quel suo terzo comma dal tono quasi rivoluzionario assume nel suo pensiero una valenza specifica. La sua esperienza di professore universitario, di avvocato e di giudice costituzionale lo porta a vivere sempre nella concretezza delle istituzioni e gli impedisce di ritenere la rieducazione un dogma. Egli fu pioniere nel rendersi conto dei rischi di deriva che minavano il sistema sanzionatorio italiano. Il suo umanesimo personalistico e solidaristico sociale fece sì che non si piegasse mai all’idea di archiviare la finalità rieducativa come un “mito” di una stagione forse felice ma utopistica. Vassalli difese sempre la rieducazione ma all’interno della concezione polifunzionale della pena, ritenendo che, se, da un lato, essa debba trovare il suo contraltare nelle altre funzioni della pena, dall’altro, vada con forza rifiutato che si possa pervenire alla totale esclusione delle pretese rieducative per taluni soggetti ritenuti a priori incorreggibili e dunque da eliminare dalla società. Presunzioni assolute di pericolosità, con conseguente automatica negazione da ogni possibilità riabilitativa, per Giuliano Vassalli sarebbero oggi ed erano ai suoi tempi incostituzionali. Con la sua dipartita il nostro Paese perde uno dei suoi pezzi di storia più autentici e nobili, fatto di amore per la democrazia ed eroismo civile. Lascia ancor oggi un profondo senso di vuoto e di dolore in tutti quelli che hanno avuto la fortuna e il privilegio di poterlo conoscere. E’ stato tra i più fedeli padri della nostra Repubblica, e per me una persona amica, un padre buono, pronto e sempre disponibile con l’entusiasmo di un giovane deciso a mordere la vita.