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Giuliano Vassalli
Per un accidente tanto fortuito quanto fortunato, abbiamo oggi la possibilità, sarebbe meglio dire il privilegio, di apprendere dalla voce di uno dei padri del processo accusatorio quanto la separazione delle carriere sia consustanziale al modello che ha ispirato la riforma del 1989.
L’intervista ritrovata a Giuliano Vassalli è di un’attualità sorprendente, sebbene raccolta dal Financial Times nel lontano 1987, alla vigilia dell’entrata in vigore di quella epocale riforma del processo accusatorio intestata, oltre che allo stesso Guardasigilli del tempo, al presidente della Commissione ministeriale Gian Domenico Pisapia.
In Vassalli è saldissima la convinzione che non si possa ritenere nemmeno tendenzialmente accusatorio un sistema processuale che prescinda dalla separazione ordinamentale del giudice dal pubblico ministero. Stimolato dalle intelligenti domande di un giornalista anglosassone intriso della cultura processuale adversary, Vassalli ricorda che «parlare di sistema accusatorio laddove il pubblico ministero è un magistrato uguale al giudice… che continuerà a far parte della stessa carriera, degli stessi ruoli… essere colleghi eccetera, è uno dei tanti elementi che non rendono molto leale parlare di sistema accusatorio».
Il ministro firmatario del primo codice di rito penale repubblicano ammette che, per onestà, si sarebbe dovuta addirittura togliere la qualifica di (tendenzialmente) accusatorio al suo progetto onde evitare una truffa delle etichette determinata proprio dalla mancata contestuale riforma dell’ordinamento giudiziario. Qualifica che è rimasta «per ragioni di opportunità», al fine di scongiurare “una ulteriore spinta per la magistratura italiana per lasciare le cose più o meno come sono». Meglio, dunque, un’etichetta ottimistica piuttosto che un segnale gattopardesco tanto atteso dal potere della conservazione.
A distanza di 35 anni dall’entrata in vigore del codice che avrebbe voluto essere accusatorio, ma che non poteva esserlo fino in fondo a causa del difetto ordinamentale, e a 25 anni dalla riforma costituzionale del giusto processo triadico, in cui il giudice è terzo rispetto alle parti poste su un piede di parità, la denuncia di Vassalli si colloca in una singolare dimensione sospesa nel tempo, tra il profetico e l’attuale.
Separazione funzionale, imposta dal modello accusatorio, e separazione ordinamentale sono vasi comunicanti nella lezione di Vassalli: la prima non può essere effettiva senza la seconda e quanto più si edulcora la distinzione delle funzioni processuali tanto meno si sente la necessità di intervenire sulle carriere. Vassalli è comunque un giurista pragmatico, consapevole delle resistenze della magistratura, da sempre marcatamente conservatrice sul punto («quello che la magistratura ha conquistato, non lo molla più»), e ritiene di poter compensare, almeno in parte, il difetto della struttura ordinamentale con una più netta distinzione dei ruoli processuali.
Realista o forse rassegnato, Vassalli avverte che «la magistratura ha un potere enorme… lo ha sul potere legislativo… è il più grande gruppo di pressione, è il più forte gruppo di pressione che abbiamo conosciuto, almeno nelle questioni di giustizia… in quarant’anni non c’è stata una legge in materia di giustizia che non sia stata ispirata e voluta dalla magistratura, la quale è diventata sempre più un corpo veramente corporativo».
Il j’accuse di Vassalli si completa con la descrizione «in linea pratica» di un ministro «circondato esclusivamente da magistrati» distaccati al ministero, una fotografia che non sembra ingiallire nel tempo e che rispecchia la realtà di un dicastero ancor oggi presidiato dai «fuori ruolo».
La lobby dei magistrati è il cuore politico dell’intervista. Vassalli non ne parla in modo generico, porta esempi concreti di condizionamenti che vanno dal veto alla elezione dei giudici costituzionali fino alle logiche del Csm per tornare al procedimento legislativo influenzato direttamente dal volere della magistratura.
In particolare, la legge di ordinamento giudiziario, la legge dei magistrati, appare a Vassalli «intoccabile» proprio per l’opposizione dei suoi destinatari naturali. Un vero e proprio corto circuito costituzionale, in cui i «giudici soggetti alla legge» impongono le loro scelte al legislatore, soprattutto quando in gioco c’è lo stato giuridico della magistratura.
L’Italia è un Paese a «sovranità limitata dalla magistratura, nelle questioni di giustizia»: questa è la perentoria e amara conclusione di uno dei più grandi giuristi del ’900, politico eminente e prima ancora partigiano. Un epilogo di attualità disarmante.
Ma torniamo alla cristallina lezione processuale di Vassalli. Nel 1989 si è tentata la strada della separazione funzionale interna al processo, non avendo allora, il potere politico, la forza di imporre la separazione ordinamentale fra giudice e pubblico ministero. A distanza di 35 anni, possiamo dire che l’escamotage non ha purtroppo funzionato e che, senza la base ordinamentale separata, le funzioni non saranno mai veramente distinte, come invece postula un processo schiettamente accusatorio- garantista. Il contesto politico attuale appare, tuttavia, ben diverso da quello descritto nell’intervista, e lascia intravedere qualche spiraglio per il superamento delle profetiche conclusioni tratte da Vassalli.
La maggioranza parlamentare è stata eletta sulla base di programmi che riportano in epigrafe la proposta della separazione delle carriere, mentre la Costituzione, a partire dalla riforma del 1999, impone la terzietà del giudice quale carattere ordinamentale indefettibile, concettualmente ben distinto tanto dall’imparzialità quanto dall’indipendenza. Democrazia, rispetto della volontà popolare e della Costituzione sono argomenti difficili da superare persino per la magistratura associata, il «più grande potere di pressione» del nostro Paese.